Caccia e Cultura

Libri, Riviste, Tradizioni... (27)

Alcune sere fa, dopo aver presentato in libreria l’ultimo romanzo di uno scrittore amico, giunti al momento degli interventi del pubblico – interventi, peraltro, da me sollecitati–  una signora non più giovanissima mi interpellò con una domanda che voleva essere provocatoria, ma della quale fui felice perché mi consentì di  aprire un dibattito su un tema del tutto estraneo a quella particolare occasione. Senza alzarsi dal suo posto, la signora, che mostrava ancora le tracce di una luminosa bellezza, mi chiese, senza tanti giri di parole: “Ma come fa una persona come lei, un esteta, uno scrittore che si dice amante della natura, ad uccidere quei poveri cinghiali?” Risposi, con una punta di volontario sarcasmo: “Sa, signora, vivi non mi riesce ancora di mangiarli!” Ci fu un attimo di gelo. Poi infierii, aprendo la bocca: “Vede signora? Questi sono i canini. E rappresentano la prova più palese che sono anch’io, e sicuramente anche lei e tutti i presenti, un predatore!”
Si parla sempre più spesso di etica della caccia. Sembra che  le due parole “etica” e “caccia” siano in stridente contraddizione fra di loro, per l’idea,  insita nella parola “caccia”, dell’uccisione di una creatura. Può la caccia essere “etica”?  Per prima cosa occorre ridefinire il significato di questa parola, che tante passioni suscita.
Che cos’ è la caccia? E’ ancora uno sport, un hobby, un uso del tempo libero? E’ una risposta culturale all’istinto di aggressività? E’ l’uso razionale di una risorsa, economica e alimentare, non in contrasto con il mantenimento e  lo stato di salute   di popolazioni animali?  E’ gestione e conservazione della fauna selvatica? E’ un lavoro che si svolge, nell’interesse di tutti, per il mantenimento delle strutture sociali di determinate specie in armoniosa relazione con le altre specie selvatiche, con il territorio e la produzione agricola e forestale? E’ qualcosa che ci ricollega con i nostri istinti più ancestrali ai quali far risalire ogni tappa del progresso umano, dalla costruzione del linguaggio, alla creazione delle comunità sociali, all’identificazione dei ruoli e delle gerarchie all’interno del gruppo? E’ un modo di sentirsi partecipe degli eventi naturali, anche dei più drammatici? Rappresenta quindi la condizione umana? Può  essere anche una metafora poetica della vita?
In realtà la caccia è tutte queste cose insieme. Ognuno di noi può , in diversa misura, scegliersi le risposte più vicine al suo modo di sentire.
E’ chiaro che alcune di queste motivazioni vanno utilizzate, con opportuni interventi pubblicistici, per modernizzare gli atteggiamenti del mondo venatorio, ma anche per rendere più accettabile all’esterno il senso di questa nostra amata, ma anche criticatissima attività, che viene percepita spesso come un gratuito atto  di violenza sugli animali.
Negli strati più responsabili del mondo degli ambientalisti  si stanno superando molte delle incomprensioni di un tempo, alla  luce anche dei grandi cambiamenti che si sono verificati in questi ultimi anni e che hanno visto, ormai in quasi tutta Italia, i cacciatori svolgere per conto delle amministrazioni provinciali un ruolo insostituibile di controllo sulle specie di ungulati, oramai  così diffusi sul territorio, da costituire un serio problema per l’ambiente, le colture, ma anche per le altre specie meno versatili.  Stanno cadendo, proprio per il nuovo corso dell’attività venatoria che viene intesa sempre di più come gestione della fauna selvatica, le incomprensioni che nel passato hanno contrapposto ambientalisti, cacciatori e agricoltori. Ci sono continue e frequenti scaramucce, ma spesso solo  di facciata. E’ invece impossibile – e lo sarà sempre - ogni contatto con il movimento degli  animalisti che, al suo interno, vede crescere sempre di più le frange estreme, oltranziste e spesso anche violente. L’animalismo è una sorta di disumana religione moderna, praticata da chi vive in città e da tempo ormai ha perso ogni rapporto con  i fatti naturali. Si basa su un’immagine falsa e idilliaca della natura, dove invece tutto è conflitto cruento, dove la vita nasce dalla morte, continuamente, in un perpetuo rinnovarsi.
A parte ogni altra considerazione, la caccia è etica quando è naturale, quando non è spreco, insensato consumo, gratuita crudeltà.
Interessante è la posizione delle diverse religioni nei confronti della caccia. Nessuna delle grandi confessioni la proibisce. a condizione che venga praticata in modo naturale. Il famoso calciatore italiano Baggio è un fervente buddista e al tempo stesso un appassionato cacciatore. Il monaco zen Gigi  Mario,  che ha la responsabilità di un monastero buddista nei pressi di Orvieto, tempo fa mi chiese se fosse possibile  abbattere un po’ di quei cinghiali che gli devastavano l’orto.
Maggiori sono invece le distanze con l’animalismo. Civiltà Cattolica, l’autorevole rivista dei Gesuiti, ha dichiarato tempo fa guerra a queste frange estreme dell’utopia verde sottolineando i rischi di una filosofia che per innalzare i diritti degli animali riduce quelli degli uomini.  Ironizzando sui pretesi diritti degli animali sostenuti dal movimento, l’editorialista di Civiltà Cattolica si chiedeva: “Per difendere la vita degli animali anche dagli altri animali, dovremmo tutta la nostra vita separare i gatti dai topi? E come si giustifica il fatto che si uccidano le pecore per alimentare Fratello Lupo?”
Torniamo agli ambientalisti o anche a tutti coloro che, pur non essendo impegnati in un’attività di “volontariato critico”,  sono semplicemente infastiditi dalla caccia, perché ormai influenzati da almeno venti anni di propaganda contraria, o anche soltanto a causa di tutte le implicazioni evocative della violenza presenti anche nella migliore e più “etica” attività venatoria.
Abitualmente noi diamo  risposte di tipo biologico ed economico:
  1.  il cacciatore svolge le funzioni dei grandi predatori ormai scomparsi;
  2.  il cacciatore ristabilisce l’ordine nella struttura sociale delle popolazioni;
  3.  il cacciatore lavora per tutto l’anno per contribuire a mantenere e migliorare l’ambiente e per questo è anche disposto a spendere di tasca sua (vedi quanto ha fatto il CIC in Senegal dove ha ricreato 52 mila ettari di zone umide);
  4. dove la caccia è stata proibita sono esplose epidemie (come è avvenuto nei massimi parchi italiani); altrove alcune  specie si sono moltiplicate a danno di altre meno versatili e si sono rivelate un vero flagello per le colture. Nel cantone di Ginevra , dove la caccia è stata interdetta da un referendum popolare, vengono spesso impiegati i militari per limitare i capi in sovrannumero;
  5. la fauna selvatica è un bene della terra, come il grano, o meglio ancora, come un gregge: se ho dieci ettari di prato e dieci pecore, dovrò intervenire per tempo per raccogliere l’incremento annuo, altrimenti in capo a due o tre anni morranno tutte.
Di  fronte a queste argomentazioni,  un interlocutore ragionevole riconoscerà magari che la caccia è utile, che a volte è necessaria, sempre che tutti i cacciatori si comportino bene. Ma la reazione degli “altri” spesso è riassunta in una sola frase: “Sì, ma voi uccidete, voi vi divertite a uccidere.”  Questo è il vero problema etico. E’ vero? E quali risposte dare?
La prima: ci sono anche le guerra giuste, le guerre difensive. Ora la caccia è come la guerra: spesso è necessaria, indipendentemente dal fatto che un militare di carriera possa trovarvi le proprie soddisfazioni. Se il tuo Paese è minacciato, che cosa fai? Scappi, passi dalla parte del nemico, professi l’obiezione di coscienza? O più onestamente rischi la tua vita per la salvezza tua e dei tuoi compatrioti, per difendere i tuoi valori, il tuo stile di vita, la tua cultura, la tua religione, anche il tuo benessere? Oppure: se devi farti tagliare un braccio, preferisci sottoporti al bisturi di un chirurgo che svolga il suo lavoro con soddisfazione, con una sorta di professionale piacere, o da chi non ama quel suo lavoro sanguinario? E’ chiaro, infatti,  che la caccia, pur rivestendo una funzione biologica, economica e anche sociale, deve essere praticata da chi intende rispondere a un’intima e arcaica pulsione, che possiamo chiamare “piacere”, anche se l’atto implica la  morte di creature viventi.
Ma ancora una volta, l’etica può trovare conforto nella biologia: in natura, ogni specie vivente si nutre a danno di altre specie viventi. La volpe uccide, ed è naturale.  Diecimila anni fa l’uomo  ha imparato ad allevare quegli animali che cacciava e a seminare quei frutti che raccoglieva, per potersene cibare più facilmente, cosa che continua a fare anche oggi senza sollevare eccessive obiezioni. Anche se allevati o coltivati per ragioni alimentari, polli, tacchini, fagioli e melanzane, sono tutte creature viventi  ( e non è detto che i vegetali non abbiano una loro sensibilità, anche se assai rudimentale). L’uomo, come qualsiasi altro essere presente su questa terra , si ciba di cose vive, non di minerali. La caccia (come la macellazione) si serve di un atto cruento per trasformare una proteina in energia. In questo non c’è niente di scandaloso, perché questo è naturale. Tutto dipende da come  si giunge ad un abbattimento, ad un’uccisione. E per questo il cacciatore si è dato delle regole per non far soffrire l’animale, e per non far danno alla specie. E in più si è inventato nei secoli una serie di rituali che danno nobiltà alla caccia, come le cerimonie che si fanno sia per onorare l’animale ucciso sia per esorcizzare il senso di colpa. E l’arte (sotto forma di musica, pittura, letteratura) è da sempre una fedele testimone dell’atto del cacciare.
Come si può vedere,  il discorso porta molto lontano e difficilmente può essere racchiuso nell’angusta griglia di una formula.

Bruno Modugno
BRUNO MODUGNO  è un’icona della caccia italiana.
  • Bruno Modugno a cacciaGiornalista e scrittore, autore televisivo e regista,  si occupa da 40 anni di problemi venatori indagando sui versanti biologico, etico e antropologico della caccia e riuscendo a contrastare con vigore e con valide argomentazioni culturali, sui giornali, come in televisione e nel mondo della politica, le  campagne anticaccia che a partire dagli anni ’70 hanno inutilmente dilaniato la società italiana. Dal 1980 al 1992 è stato responsabile dell’immagine dell’UNAVI ed ha partecipato in prima persona alle battaglie per la difesa della caccia contro 24 referendum regionali e nazionali.
  • E’ responsabile della Commissione Etica e Informazione  della Delegazione italiana del Conseil International de la Chasse et de la Conservation du Gibier.
  • Per 20 anni è stato membro del comitato di direzione della rivista Diana. Ha fondato e diretto per quattro anni il mensile Caccia +.
  • Dal ’97 al 2002  è stato direttore editoriale del Canale monotematico Seasons (bouquet Tele+) ed autore e conduttore delle due rubriche settimanali “Storie di Riva e di Bosco” e  “Le Nostre Stagioni”.
  • Dal  2004 è autore e testimonial del Canale monotematico Caccia e Pesca (bouquet Sky) e autore e conduttore delle due rubriche settimamanali “Parliamo di caccia” e Andiamo a caccia”.
  • E’ stato il primo presidente dell’ultima nata tra le Federazione del CONI: la FIDASC (Federazione Italiana Discipline con Armi Sportive e da Caccia). Per il lavoro svolto e per i successi ottenuti sui campi di tiro internazionali è stato insignito dal Presidente della Repubblica,  su proposta del Presidente del Consiglio, dell’onorificenza di Commendatore  dell’Ordine “Al Merito della Repubblica Italiana”.
  • Pratica soprattutto la caccia agli ungulati (al cinghiale, in battuta; al camoscio, capriolo e cervo con la carabina di precisione), ma anche alla penna col cane da ferma. I suoi teatri di caccia sono le Maremme e le montagne del Tirolo.
  • Modugno vive e lavora a Roma. Ha lavorato per undici anni nei quotidiani e rotocalchi, come cronista e poi inviato. Nel '64 ha cominciato a collaborare con la RAI-TV. E' stato autore e conduttore di  programmi culturali  e di grandi contenitori quotidiani di intrattenimento. Durante gli “anni di  piombo”, dal ’76 al ’79,  ha condotto il TG1 delle 13,30.
  • Ha girato numerosi documentari dedicati alla ricerca etnologica, all'avventura, agli animali e all'ambiente. Ha scritto  soggetti e sceneggiature per il cinema e la TV, il copione del musical  di Gianfranco Reverberi liberamente tratto dalla commedia "La Presidentessa", e i testi di numerose canzoni.
  • Insieme a Folco Quilici e Carlo Alberto Pinelli ha scritto il  film per la MGM  Il Dio sotto la Pelle, la cui sceneggiatura, pubblicata dalla Minerva Italica, gli ha valso il premio Bergamo.
  • Bruno Modugno, un'icona della Caccia ItalianaHa scritto un libro  di racconti  (Roma by night),  saggi e alcuni romanzi. Con il suo primo romanzo, Re di Macchia (Rusconi Editore), è entrato nella cinquina del premio Strega ed ha vinto il premio Un Libro per l'Estate.  E’ stato assai significativo che, nel pieno della polemica animalista contro la caccia, proprio la storia di un  cacciatore  abbia ricevuto il riconoscimento della cultura ufficiale. Da questo primo romanzo è stato tratto l'omonimo film, da lui stesso scritto e diretto (Filmstudio-Mediaset). Col suo secondo romanzo, Cento Scalini di Buio ( Rusconi editore), ha vinto il premio Vallombrosa. Col suo terzo romanzo, Cacciatore d'Ombre (Vallecchi), ha vinto i premi Città di Piombino e Cypraea. L’ultimo romanzo,  che conclude la quadrilogia maremmana è Ballata Saracena (Editoriale Olimpia).
Luca Davide EnnaLuca Davide Enna nasce a Sassari, in Sardegna, nel 1965 e vive a Alghero. Cacciatore, scrittore, giornalista , designer di coltelli da caccia e lavoro, esperto di politica venatoria e dirigente, cinofilo, pescatore, socio fondatore di un gruppo micologico nella sua città, socio del "Club dei Ventitré" ( il club degli estimatori di Giovannino Guareschi) e di altri club, cinofili e culturali. Inizia ad appassionarsi alla caccia a sei anni, quando il padre gli regala una fionda ad elastici .  Alcuni anni dopo riceve in dono la sua prima cacciatora "maremmana", a Montepescali, presso Grosseto e da lì proseguono le sue avventure venatorie. Sostenitore del "diritto alla libertà di caccia" e delle cacce alla selvaggina migratoria "da Agosto a Marzo" nel rispetto delle leggi europee, ma anche del diritto al mantenimento delle tradizioni dei popoli. E' autore di numerosi articoli e pubblicazioni, su riviste di vario genere e su internet. A breve, sarà nelle librerie la sua recente fatica, il libro : "Storie di uomini e cani", una raccolta di racconti che prendono spunto dalla caccia, per descrivere la vita della gente comune. In "Storie di uomini e cani", i diversi protagonisti sono persone normali che svolgono le loro attività con semplicità ma seguendo quei valori così radicati nella popolazione italiana, fino a pochi anni or sono. L'autore ha inteso riproporre un modo di vivere importante per la nostra società, poi accantonato anche in seguito agli sconvolgimenti sessantottini. I riferimenti storici del libro partono dall'Italia bellica e post-bellica e raccontano l'esistenza di molte persone che, nonostante gli accadimenti, non hanno gli animi esacerbati tra loro né con altri. La solidarietà ed i valori possono definirsi il "filo conduttore" del libro. In alcuni dei racconti, i cani sono i protagonisti principali e la figura del padrone viene un pò messa in ombra, non per uno sfacciato animalismo, bensì per fare risaltare il rapporto affettivo e di collaborazione tra l'uomo ed il suo amico fedele. Attualmente l'autore è al lavoro per la preparazione di altre pubblicazioni. nasce a Sassari, in Sardegna, nel 1965 e vive a Alghero. Cacciatore, scrittore, giornalista , designer di coltelli da caccia e lavoro, esperto di politica venatoria e dirigente, cinofilo, pescatore, socio fondatore di un gruppo micologico nella sua città, socio del "Club dei Ventitré"(il club degli estimatori di Giovannino Guareschi) e di altri club, cinofili e culturali. Inizia ad appassionarsi alla caccia a sei anni, quando il padre gli regala una fionda ad elastici .  Alcuni anni dopo riceve in dono la sua prima cacciatora "maremmana", a Montepescali, presso Grosseto e da lì proseguono le sue avventure venatorie. Sostenitore del "diritto alla libertà di caccia" e delle cacce alla selvaggina migratoria "da Agosto a Marzo" nel rispetto delle leggi europee, ma anche del diritto al mantenimento delle tradizioni dei popoli. E' autore di numerosi articoli e pubblicazioni, su riviste di vario genere e su internet. A breve, sarà nelle librerie la sua recente fatica, il libro : "Storie di uomini e cani", una raccolta di racconti che prendono spunto dalla caccia, per descrivere la vita della gente comune. In "Storie di uomini e cani", i diversi protagonisti sono persone normali che svolgono le loro attività con semplicità ma seguendo quei valori così radicati nella popolazione italiana, fino a pochi anni or sono. L'autore ha inteso riproporre un modo di vivere importante per la nostra società, poi accantonato anche in seguito agli sconvolgimenti sessantottini. I riferimenti storici del libro partono dall'Italia bellica e post-bellica e raccontano l'esistenza di molte persone che, nonostante gli accadimenti, non hanno gli animi esacerbati tra loro né con altri. La solidarietà ed i valori possono definirsi il "filo conduttore" del libro. In alcuni dei racconti, i cani sono i protagonisti principali e la figura del padrone viene un pò messa in ombra, non per uno sfacciato animalismo, bensì per fare risaltare il rapporto affettivo e di collaborazione tra l'uomo ed il suo amico fedele. Attualmente l'autore è al lavoro per la preparazione di altre pubblicazioni.
 
I testi di Luca Davide Enna:
 
La corteccia consumata ed aggrinzita dal tempo, i nodi lucidi ed i rami protesi verso il cielo gli davano un’immagine simile a quella della mano di un naufrago che chiede disperatamente aiuto, un aiuto che nessuno può prestargli, dal momento che quel naufrago era un vegetale , e quindi , muto, ed il mare una distesa di macchia mediterranea. L’albero cavo era lì, piantato da secoli, testimone immemore di una moltitudine di vicende che avevano creato non pochi affanni alle generazioni che lo conobbero e sciolsero i fiocchi delle loro vite al riparo della sua chioma. Rifugio per gli armenti e gli animali selvatici, ristoro per tordi, merli, colombacci e quant’altro, nascondiglio, più o meno segreto, per il ricovero di traffici non sempre leciti, l’albero di olivastro della tanca dei Podda ne avrebbe avuto da raccontare, se solo il Padreterno l’ avesse fornito di lingua e polmoni, anziché chiedergli quotidianamente la produzione di anidride carbonica ed ossigeno… Cento anni prima ed agli inizi del novecento, parecchi banditi lo avevano preso come punto di riferimento e non solo loro, ma anche pastori, viandanti, missionari e tutti coloro che passavano da quelle parti e stanchi, disperati o circospetti, si aggiravano all’ombra del suo fogliame. All’interno, pro tempore, vi si celavano veri e propri tesori, di genere alimentare, commerciale o altro. Forniva riparo, rifugio e sollievo, con quella discrezione che solo un albero può dare, perché poco loquace, per natura. Pizzente si recò al solito posto, tra le macchie scure di lentischio, la tirìa (ginestra spinosa) ed il mirto reso scuro dalle abbondanti piogge. Camminava sospettoso, nonostante conoscesse quella zona come le sue tasche. Arrivato dietro la roccia del fiume, a circa cinquanta metri dall’albero, dove poteva avere una visuale sicura, si fermò e sbirciò di sottecchi, per tranquillità. Quasi non gli prese un colpo. Due individui con grandi occhiali da mosca, stavano alla base dell’albero cavo e confabulavano animatamente. Poi, uno dei due infilò una mano in alto, in un piccolo incavo e ne trasse due pacchi scuri. Sciolto l’involucro del primo, saltarono fuori due buste con un contenuto biancastro che vennero subito intascate, da uno e dall’altro. In seguito, slegato il secondo, si vide con chiarezza che erano soldi, perché i due si misero a contare e diviso in due il “malloppo” si voltarono di spalle e si allontanarono. Pizzente era impietrito, fermo, lì dietro la roccia, grondando sudore nonostante il freddo pungente. Mille idee gli erano frullate per la mente ma certo quei due non erano cacciatori di frodo, come lui. Anzi, li aveva già visti e il ricordo gli affiorava alla mente come un fumo rosso porpora. Avrebbe voluto agire , ma qualcosa lo trattenne, un rumore sospetto , che poi risultò essere quello prodotto da un vitello al pascolo, ma sulle prime lo fece tremare per il timore di avere qualcun altro nei pressi. Era abituato a quei luoghi e lì conduceva la vita, senz’agi né lussi, ma riusciva a barcamenarsi per tirare avanti la famiglia. Aveva già le comande pronte: dieci pernici per la cena dell’avvocato, due cosce di cinghiale per il dottore, qualche chilo di polpa per il vicesindaco, un cosciotto anteriore per la moglie del fornaio, l’altro per il calzolaio e un pò di polpa, questa in regalo, al povero e smunto parroco che si occupava di quel gregge di anime. Per lui bracconaggio era sinonimo di ricerca del cibo e non vi è dubbio che fosse così. Rispettava gli animali e le stagioni, prelevando solo ciò che gli occorreva e eliminando trappole e lacci di astuti servi-pastori o contadini ai quali un lavoro non bastava , ma volevano “arrotondare”… Certo , era difficile tirare avanti, ma la sua bravura e l’arte nel mestiere erano formidabili, per cui raramente tornava a mani vuote. A suo modo , si riteneva una persona onesta e poi non aveva troppa paura delle guardie che, in effetti lo lasciavano in pace , perché lo conoscevano da sempre e sapevano che non era lui a danneggiare l’equilibrio faunistico, ma alcuni di quei balordi arrivati dal capoluogo senza conoscere il posto e pestando a caso nell’intento di scovare qualcosa. Più volte aveva visto quei signori vestiti bene, con abiti costosi e cani di razza al seguito. Ogni tanto ne accompagnava alcuni indicando loro alcuni luoghi dove catturare qualche preda e con certi aveva fatto pure amicizia, per cui al loro arrivo lo riempivano di pacchi regalo per lui e la famiglia, conoscendo le sue necessità. In particolare uno, Baingio, viveva in città, in una casa di lusso con le specchiere nel bagno , il salotto pieno di luci e di quadri firmati e lo studio zeppo di libroni grossi così. Baingio arrivava dalla campagna, come lui, solo che aveva avuto la fortuna di studiare ed era arrivato ad un’ottima posizione sociale. La ricchezza però non gli aveva portato bene ed uno dei suoi quattro figli aveva preso una brutta strada. Provarono di tutto, lo pedinarono, lo pregarono, arrivarono a picchiarlo, ma non ci fu niente da fare. Un giorno, una telefonata dalla centrale informò il poveruomo che il figlio prediletto era stato trovato esanime dopo una notte fuori casa. Dalle indagini risultò che il ragazzo aveva il vizio del gioco ed era entrato in contatto con un giro di pessima gente ; aveva contratto debiti e, per vendetta , due sicari lo avevano accoltellato per strada. Il povero padre non sapeva darsi pace e ogni volta che si ritrovava con il suo carissimo amico e gli tornava alla mente l’accaduto si fermava ed iniziava a piangere disperatamente. Pizzente provava a consolarlo, ma l’impresa era troppo difficile. Era passato del tempo e lui aveva raccolto una mole d’informazioni sulle frequentazioni del ragazzo scomparso, per cui sapeva con precisione quasi matematica chi era stato a commettere il delitto e come aveva agito. Non era tranquillo per ciò che sapeva e cercava di dimenticare l’episodio facendo le cose a lui congeniali, ma, quell’incontro vicino all’albero cavo gli aveva riaperto una ferita. Non poteva dirlo all’amico, perché sapeva che si sarebbe compromesso mettendo in gioco la sua onorabilità e questo segreto lo logorava ogni giorno di più. Quella visione fu lacerante, come una folata di ghiaccio su un cavallo sudato dopo una folle corsa. Cercava di radunare i pensieri e, spaventato dal rumore udito, si rannicchiò sotto un cespuglio, facendosi sempre più piccolo. Quando vide il vitello capì di aver perso un’occasione. Si rialzò lentamente, ma i due individui erano già scomparsi nell’ombra delle piante frondose. Andò all’albero cavo, infilò la mano nella fessura, in alto e non trovò nulla. Picchiò un pugno sul tronco, per la rabbia, si ammaccò la mano e dovette fasciarla per giorni. La notte montava di vedetta e controllava l’eventuale andirivieni al vecchio albero. Per parecchio tempo non si vide nessuno, poi, una sera, due tizi arrivarono deposero qualcosa nel tronco e si allontanarono, di corsa. Come un gatto selvatico, dopo averli fatti allontanare, si avvicinò al tronco e frugò dentro.
C’erano due pacchi; uno pieno di una strana polvere bianca e l’altro zeppo di soldi. Rimase terrorizzato. Quelle canaglie erano due trafficanti, oltre a fare il doppio lavoro da sicari. Ritornò altre volte all’albero cavo e non trovò più qualcuno, così, in un periodo di ristrettezze, decise di recuperare lui il pacco dei soldi. Si recò all’albero, ma proprio quando mancavano poche decine di metri dal luogo si accorse che c’era qualcuno. I due individui erano lì che confabulavano animatamente, finché ci fu una colluttazione, si udirono due spari quasi all’unisono e poi cadde il silenzio. Con il sudore che grondava, nonostante il freschetto della sera, Pizzente si levò pian piano e si sporse oltre i ciuffi di un arbusto, fino a che non vide la scena. I due delinquenti giacevano sul terreno, secchi come il sughero, fulminati dalle rispettive schioppettate e vicino a loro due grossi pacchi stavano in bella vista. Con cautela si avvicinò, osservò tutto, prelevò il pacco con i soldi da terra e poi sottrasse i due pacchi dal cavo dell’albero. Ritirò anche il secondo pacco con il denaro e buttò quello con la polvere, a fianco dei due criminali. Una telefonata anonima avvertì le guardie che c’erano due cadaveri in campagna e quando i militari furono sul posto e trovarono i due pacchi, vicino a quei figuri, pensarono subito che i due tizi si fossero uccisi a vicenda per contrasti sulla divisione della merce. Pizzente lasciò perdere l’albero cavo e da quella volta smise di andare in campagna di notte, ma il segreto lo tormentava. Una mattina, mentre lui e Baingio riposavano seduti su una roccia, dopo una faticosa scarpinata, guardò l’amico negli occhi e gli raccontò tutto. Quello rimase gelato. Incominciò a piangere e pensò all’inutile fine di quei tipi ed al destino infame che aveva colto lui e il suo figliolo. Poi rifletté sull’accaduto e pensò ai soldi ed a Pizzente e convenne almeno che nonostante un male così orrendo era scaturito un bene, per una famiglia in ristrettezze come quella dell’amico. “Io faccio il mestiere che faccio”, disse all’amico, asciugandosi gli occhi, “ma, la mia coscienza mi dice che hai fatto bene a tenere quei soldi. Erano soldi maledetti e lasciarli a loro non sarebbe servito a nulla, mentre permetteranno a te ed ai tuoi di vivere una vita decorosa, e, in fin dei conti , così non dovremmo più andare a caccia con la paura che qualcuno ti cerchi per le tue scorribande notturne…”. Pizzente lo guardò con un sorriso che andava da un orecchio all’altro e gli occhi lucidi nel vedere la gioia riflessa negli occhi dell’amico e disse: ”Caro avvocato, hai ragione, d’altronde non ho più l’età per portare a spalla un cinghiale e correre con le guardie appresso. Preferisco fare tutto in regola e cacciare alla luce del giorno. Ma, adesso, cosa vogliamo fare? Ci fermiamo ancora a trastullarci come due smidollati cittadini o vogliamo cercare quel volo di pernici che ho <segnalato> la scorsa settimana?”. E si rialzarono, più leggeri, ma con il cuore gonfio, pensando a quelle disgrazie e guardando avanti, verso l’orizzonte, dove il confine tra le stoppie e la macchia <segnalava> la frontiera del loro immediato futuro.

Autore: Luca Davide Enna
Sotto il sole cocente d’agosto e con il pianale del carretto grondante d’acqua, si aggirava per le vie deserte recando un po’ di refrigerio agli indirizzi prestabiliti. Brumilde colava sudore dalla criniera e sbuffava come un mantice, con le narici che si allargavano e stringevano alla ricerca di aria fresca. Lui era tranquillo e pure in quell’afa riusciva a fumacchiare il suo puzzolentissimo “mezzo toscano” e tirava fuori il meglio del suo repertorio aulico per imbonire la vecchia, ma ancora possente, cavalla Ardennese. In verità si trattava di una Ardennese-Svedese, ma lui non badava al pedigree ed ai dettagli, almeno nei cavalli e la Svezia, in materia equina, la considerava poco. Quel carro era pesante, ma, Brumilde lo tirava come un fuscello e se non fosse stato per il caldo esagerato l’avrebbe fatto anche con più brio. I grandi blocchi di ghiaccio coperti da un telo impermeabile lasciavano andare un filo sottile di perle luminose che tracciava un ghirigori sullo sterrato della carraia. Lui controllava il taccuino e spuntava i nomi dei destinatari, mano a mano che consegnava il suo gelido fardello. Asciutto, minuto e rubicondo di viso, aveva pochi vizi e solo una passione, ma niente di scandaloso o fuori dal normale. Un bicchiere di buon vino rosso bevuto fresco con gli amici, un mezzo sigaro toscano ed un mazzo di carte costituivano il massimo delle gozzoviglie di Alcibiade. Era difficile vederlo brillo perché sapeva rispettare i suoi limiti, ma le gote rubiconde, il naso lucido e gli occhietti vispi ed allegri con quelle zampette di gallina che ne solcavano i lati, davano l’idea di un giocondo birbante di paese. La mattina si levava dal letto un paio d’ore prima dell’alba e la sera tirava tardi fumando sulla porta o all’osteria con gli amici, ma sempre senza grandi eccessi, così, in maniera sobria e naturale. All’ora prefissata poi, andava a ritirare il ghiaccio e faceva il giro per consegnarlo in tempo, prima che si liquefacesse. Vestiva sempre uguale, con il suo cappellaccio ed i calzoni scuri, in più usava un paio di grossi guanti in pelle ed un rampino per acchiappare i blocchi e trasportarli ai clienti. Alcune giovani mamme, chiacchierando tra loro, avevano notato questi particolari ed erano riuscite a imbastirne una favoletta ad uso e consumo loro, per intimorire i figli capricciosi. Appena si udiva la voce squillante di Alcibiade, la mamma di turno redarguiva il bimbetto dicendo: “ Se continui con le prepotenze ti faccio prendere dall’omino del ghiaccio e ti faccio portar via” . Così anche i più reticenti, dovevano capitolare ed obbedire subito. La vista di quell’omino, scuro scuro, con quel cappellaccio , le gote rubiconde, i guanti ed il rampino, era più che sufficiente per sopire ogni atto di ribellione. Alcibiade, si è detto aveva alcuni vizi ed una sola passione e quella era la caccia. Alla domenica si alzava presto, governava la vecchia Brumilde e poi, preso Duck, si avviava verso la campagna alla ricerca delle quaglie o dei beccaccini. La sua passione era fortissima e solo per quella poteva rinunciare a qualsiasi cosa. Duck soltanto poteva capirlo e nessun altro. Anni addietro, Martina, la figlia del casaro, aveva iniziato un filarino con quel simpatico giovanotto, ma la cosa era finita lì, senza avere alcun seguito. Lei era un po’ troppo sofistica e la domenica voleva andare alla passeggiata per chiacchierare amabilmente con le amiche, sorseggiando una limonata fresca, o un thè caldo, a seconda della stagione, mentre Alcibiade preferiva scappare in campagna, lontano dalla gente e vicino al suo mondo, per cui l’intesa si spezzò, e buona notte al secchio. Duck era intelligente, vivace, con gli occhi allegri e si può tranquillamente pensare che, se non avesse avuto tutto quel pelo, si sarebbero scoperte le stesse gote rubiconde e le zampe di gallina del suo padrone. Insomma, sembrava il sosia canino del simpatico Alci. Più che un cane era un compagno di caccia ed insieme formavano una coppia simpaticissima. Si trattava di un Breton, purissimo e di gran sangue; Alcibiade l’aveva avuto in dono da un amico della città che, ritirato il cucciolo, come diritto per aver fatto accoppiare il suo maschio blasonato, non sapeva che farne e si era ricordato della passione del suo amico ghiacciarolo. Aveva un bel manto bianco fegato, il fisico “cob”, lo “stop” marcato ed una postura “rampante”, tutte caratteristiche formidabili in un cane di quella razza. Nei campi era uno spettacolo e sui beccaccini o sulle quaglie, una bellezza. Fermava a distanze incredibili i becchilunghi, silenzioso e delicatissimo. Si accorgevano di lui solo quando era troppo tardi ed Alcibiade era riuscito a piazzare qualche pallino del nove al posto giusto. Con le quaglie era imbattibile. I “topi delle paglie” sgattaiolavano di nascosto e lui, sempre dietro, finché le fermava, d’autorità, e le costringeva a sottostare al suo dominio, fino a quando, spinto da Alci, non forzava ed il gioco era fatto. In paese lo conoscevano e quando lo vedevano arrivare, al fianco di Brumilde, lo chiamavano per dargli le leccornie e lui, giocoso, muoveva quel mozzicone di coda e faceva le feste a tutti. I bambini lo adoravano e, nonostante il timore dell’omino del ghiaccio , cercavano di avvicinarsi per accarezzare Duck e fargli le coccole. Quella sera Carletto era piuttosto inquieto e, vista la mala parata, la mamma decise di ricorrere all’ultima inquietante minaccia. “Se continui ancora, vado a chiamare l’omino del ghiaccio e ti faccio portar via, stasera stessa.” Non avendo sortito alcun risultato , la poverina si recò in osteria e bussato al vetro chiese ad Alcibiade di parlare per una questione urgente. Si accordarono e decisero che l’indomani avrebbero messo in atto il piano, ma con una variante proposta dallo stesso “giacciarolo”. Alcibiade chiese alla mamma di preparare Carletto con un paio di stivaletti, calzoni robusti ed una camicia altrettanto pesante. L’indomani, sbrigate le faccende urgenti, si recò a casa di Carletto per ricevere gli ordini dalla mamma del bimbo. La ragazza consegnò il figliolo, salutandolo alla porta, con fare grave e quasi pentendosi di quel gesto troppo severo. Sulle prime, il bimbo era reticente, aveva gli occhi gonfi e le gote solcate da un rivolo di lacrime. Chiese perdono, promise di non farlo mai più, ma, la mamma, risoluta nel dargli una lezione e sicurissima dell’affidabilità di Alcibiade, non mutò la sua decisione. Nella mente del fanciullo , quello sembrava l’inizio di un giorno terribile, mentre, in realtà si trattava di una giornata destinata a divenir memorabile. Carletto passò una mattinata a beccaccini con Alcibiade e Duck e quell’avventura gli mutò la vita . All’inizio era intimidito perché temeva che l’omino del ghiaccio avesse intenzione di infilarlo nell’acqua gelata e poi rivenderlo a cubetti al mercato del pesce, poi il terrore si mutò in sospetto e via via che la campagna s’ avvicinava e la marcita prendeva forma tra le pozze, le erbette ed i giunchi il sentimento si mutò in curiosità. Davanti a lui uno spettacolo senza precedenti nella sua giovane mente. Per ettari ed ettari di territorio pianeggiante il sole della prima mattina illuminava una miriade di cristalline e luccicanti pozze circondate da erbe fresche e da stoppie marce. I chiaroscuri di quel quadro erano interrotti dalle garzette che solcavano il cielo e dalle grida sguaiate degli stormi di pavoncelle. Di quando in quando coppiole di germani e voletti di alzavole saettavano nell’azzurro del cielo, i primi roteando sempre più in alto ed allontanandosi per poi calarsi molto oltre e le seconde sferzando l’aria e piombando giù a capofitto, rasentando il pelo dell’acqua e poi, su d’improvviso , cabrando e riprendendo quota e di nuovo piroettando all’unisono con perfetto sincronismo. Il pìo pìo delle pispole accompagnava dolce questo rimestìo della natura ed i piccoli uccelli si libravano sicuri scattando dalle chiazze umide per disegnare le loro traiettorie intervallate. Lo sciaquettìo degli stivali nell’acqua non stonava affatto, anzi, faceva da contorno musicale all’insieme armonizzando il tutto e ad esso si aggiungeva lo sciabordio delle zampette di Duck che, estasiato, percorreva le praterie allagate a testa alta , alla ricerca dell’effluvio familiare. Dopo una furiosa scorribanda, Duck si mise in ferma, sicuro , col capo sollevato, la groppa bassa rispetto al torace , le zampe tese e l’occhio scintillante. Alcibiade guardò il bimbo e gli disse: “Vedi, ora Duck ha trovato la sua preda e farà in modo che noi abbiamo tutto il tempo di avvicinarci. Il beccaccino è un animale sospettosissimo. Al primo cenno di pericolo saetta basso basso e si allontana zizgagando, cercando di frapporre più spazio possibile tra il fucile e la sua coda. Duck lo conosce bene e con il suo olfatto riesce a fermarlo a grandi distanze per non farlo insospettire troppo. Ora vedrai come lo lavora ”. Duck tratteneva il fiato e cercava di camminare sul pelo dell’acqua, senza più produrre alcun rumore. Arrivato al limite della prima grande pozza si irrigidì e non volle fare più un passo. Il gioco era fatto. Ogni mossa poteva essere quella decisiva ed a quel punto la parola “fine” poteva metterla solo Alcibiade. L’omino si appressò al suo ausiliare, stando attento a non far rumore e curando la linea di tiro antistante il cane per un raggio di diversi metri. Contemporaneamente fece cenno al bimbo di tenersi dietro, in assoluto silenzio e di seguire bene lo svolgimento dell’azione. Fatto quel passo in più, ruppe l’incantesimo e la piccola saetta sfrecciò bassa e guizzante , tanto che, alla prima botta, il tiratore fallì il colpo e riuscì a correggersi solo alla seconda, essendosi concesso più tempo per un tiro ragionato. Raccolta la preda, Duck la depose nelle mani del padrone con la massima delicatezza, poi ripartì di corsa per cercare nuovi effluvi. Alcibiade rassettò il pennuto e lo mostrò al bimbo dicendo: “Vedi, la caccia al beccaccino è un arte. Pochi la comprendono e l’apprezzano ed ancor meno la amano così tanto da farne l’unica motivazione per le loro uscite in campagna. Solo i grandi cani possono cacciare l’astuto beccaccino, gli altri si devono accontentare della pernice o peggio del puzzolente e sguaiato fagiano. Duck caccia con eccellenza anche gli altri volatili ma ha una vera predilezione per il beccolungo. La sua caccia di ripiego è la quaglia. Quella piccola birba sembra un folletto, nelle paglie e nelle stoppie, ma Duck riesce sempre ad averne ragione, sfruttando il naso ed il mestiere. Un cane troppo giovane o inesperto si lascia gabbare, perché la quaglia striscia sotto le erbe e pedina nei cunicoli della paglia facendo perdere la pazienza e la traccia anche ai cani più nobili. Lui insiste e non molla la presa, finché la “ferma” e la mette alle strette, costringendola a palesarsi”. Il breton aveva percorso un lungo tratto e si era fermato a ridosso di un ciuffo di giunchiglia senza fare il minimo movimento e voltando la testa indietro, di quando in quando, come ad attendere l’arrivo dei rinforzi. Giunti sul posto, tre germani avevano spiccato il volo in verticale con un fragoroso “naach, naach, naach” di disappunto. Alcibiade tirò prima ad uno e poi all’altro e nonostante i pallini dell’otto riuscì a fermarli entrambi. Alle botte si sollevarono di colpo altri due branchetti di germani, poco distanti ; quello scampato dal trio si affrettò a ricongiungersi ai suoi simili e, dopo ampie volte nel firmamento mattutino, decise con loro di cercare altri lidi. Duck intanto era ritornato con il primo germano in bocca e lo aveva consegnato al padrone, dopo di che era andato a recuperare il secondo con la massima solerzia. Alcibiade era soddisfatto del lavoro del suo cane e Carletto era addirittura estasiato. Soppesava le due bestiole e guardava le differenze cromatiche tra il maschio e la femmina. Più che altro lo aveva attirato il candido anello intorno al collo ed il ricciolo delle penne caudali. Accortosi dell’emozione del bimbo, Alcibiade strappò il “ricciolo” dalla coda dello splendido maschio e lo fissò sul cappello del bimbo che, per la gioia, non smetteva di allisciare quelle penne e di rimirare il suo copricapo così arricchito da quel trofeo. Riposto tutto in un sacchetto e poi nella “ladra”, continuarono a camminare e dopo un po’ videro che Duck era nuovamente in ferma. Si appressarono con cautela e quando furono vicini si udì un fuggi-fuggi generale e diversi “sgneck” lanciati con stupore da un gruppetto di beccaccini che pigramente scavavano buche nella terra molle alla ricerca di lombrichi. Colti di sorpresa, i piccoli scolopacidi erano partiti sparpagliandosi a ventaglio ed offrendo così un difficilissimo bersaglio. L’omino non si scompose e lasciò andare due botte. Un beccaccino si appallottolò in volo e cadde stecchito; gli altri si allontanarono , ma, dopo alcuni metri, uno s’impennò e puntò verso lo zenit, arrivato poi alla fine della corsa, ripiegò le ali e cadde anch’esso. Alcibiade spiegò a Carletto che il primo animale aveva ricevuto i pallini in parti vitali ed era caduto subito, mentre il secondo era stato colpito sicuramente ai polmoni, per cui si era impennato cercando aria , ma poi aveva ceduto e abbandonate le forze era crollato. Carletto guardava quel lungo becco, come nella prima preda della mattina e solo ora osservava con attenzione quei piccoli forellini nella terra molle. Provò ad accomodare il becco sottile nei fori e vide che coincideva alla perfezione. Poi chiese ad Alcibiade come faceva il beccaccino a prendere i lombrichi e questi gli spiegò che lo scolopacide possiede l’ultima parte del becco mobile,come una piccola pinzetta, per cui, dopo aver sondato con cura, afferra la preda e la tira fuori dal terreno. Il bambino non smetteva più di fare domande e l’omino, paziente, non tralasciava di fornirgli spiegazioni ed impartirgli insegnamenti. Girarono per gli argini, le marcite, le risaie, videro mille ferme e mille riporti e il bimbo scoprì un universo sconosciuto ed apprese un infinità di cose nuove, poi, stanchi , appiccicati per il sudore e affamati come lupi, si avviarono a casa. Al rientro, Carletto era elettrico. Fece vedere alla mamma il cappello ornato con quel fantastico trofeo e raccontò le prodezze di Alcibiade e del formidabile Duck. L’omino, da canto suo regalò tutte le prede alla giovane donna spiegandogli come trattarle e come cucinarle. Il bimbo ringraziò e promise di fare il buono, non foss’altro per andare nuovamente a caccia con quella coppia insuperabile. Dal giorno Carletto mutò atteggiamento ed interessi. Solo i cani, la selvaggina, i campi attiravano il suo interesse ed i suoi studi , le altre cose , lo interessavano poco o punto. Smaniava per andare in marcita con Alcibiade e correva in strada, quando sentiva il rumore delle ruote sul selciato. Correva incontro all’omino ed al cane ed in cambio riceveva da entrambi un sacco di feste. Tempo dopo, sotto Natale, attendeva il grande momento per recarsi a Messa e poi, al rientro, aprire i pacchi dei regali. Svegliatosi presto e sbrigate le faccende di casa si avviò tranquillo per ascoltare la celebrazione per la Nascita del Creatore, in seguito , giunto nuovamente a casa, aprì i pacchi e sgranò gli occhi per i regali. Una cacciatora di fustagno, nuova di zecca, con un ampia “ladra” sulla schiena, così grande da contenere anche una lepre, senza il minimo ingombro; poi, un paio di stivaletti, alti, al ginocchio e due paia di calzettoni ed infine un paio di calzoni di velluto, luccicanti di riflessi e profumati. Il bimbo era seduto ad ammirare tutto quel ben di Dio, quando suonò il campanello. Corse ad aprire e con sua sorpresa vide quella ben nota faccia rubiconda che sorrideva ed al suo fianco un lindo e spazzolatissimo Duck. Il bimbo abbracciò entrambi e mostrò loro i regali. Fatti i convenevoli di rito e scambiati gli auguri anche con i genitori, l’omino posò una scatola traforata e traballante sul tavolo e disse: ”Tu sei il mio compagno di caccia e non è possibile che non abbia un dono importante da me. Anche il mio Duck sarà contento del regalo che sto per farti, perché sa che ne avrai la massima cura”. Detto questo porse il pacchetto al bimbo che con trepidazione lo aprì, e dopo averne osservato il contenuto, ammutolì. Poi si mise a tremare, due gocce gli solcarono il viso e gli occhi divennero sempre più acquosi, poi strillò, corse per tutta la stanza e balzò nuovamente davanti al tavolo ed alla scatola. Allungò le mani, trasse un piccolo batuffolo, lo rimirò con attenzione ed esclamò : “Ma è bellissimo. Ha le stesse macchie e lo stesso colore di Duck”. “Certo”, disse Alcibiade, “è il figliolo. Ho fatto accoppiare Duck con la cagna di un mio amico carissimo; grandissima cacciatrice di beccaccini. Pensa che lo scorso anno ha vinto diverse gare ed ha ricevuto anche un paio di premi per gli standard di razza. Oddio, per Duck non sarebbe abbastanza sufficiente, ma ‘vvia, ci si deve accontentare”. Carletto era ancora a bocca aperta e non osava chiedere, ma poi si buttò e disse:” Ma… è mio? Cioè. Lo posso tenere con me? Insomma…è il mio nuovo cane da caccia, tutto per me ?”. “Certamente” risposero in coro. “Allora lo chiamerò Lampo. Diventerà bravo e veloce come Duck; forse anche di più. ” Disse con sicurezza il bimbo. Subito dopo prese due pacchi e li porse all’omino il quale li scartò con viva apprensione. All’interno vi erano: una cartucciera in cuoio scuro, fiammante di fabbrica ed un cappello a tese larghe con tre penne di beccaccino assicurate alla fibbia che circondava la calotta. Il buon uomo si fece serio, trasse il fazzoletto, si asciugò il naso e poi gli occhi e disse con voce tremante: ”Io sono solo al mondo. Non ho parenti, anche se possiedo tanti cari amici. E’ la prima volta in tanti anni che ricevo un regalo così bello. Lo gradisco ancora di più perché vedo che mi è stato donato da gente sincera, che mi vuol bene e conosce la mia passione”. La cosa finì lì, perché i genitori di Carletto gli risposero che non era il caso di emozionarsi e dissero che loro avevano fatto volentieri quei regali seguendo le istruzioni impartitegli dal figliolo. L’omino si soffiò il naso un'altra volta, strinse le mani a tutti ed abbracciò radiante il bimbo. Poi istruì il ragazzo sull’addestramento e l’allevamento del cucciolo, brevemente e con due o tre concetti di base ed infine si accomiatò. Ogni mattina il piccolo apprendista si levava presto e portava Lampo a correre, poi lo spazzolava, provava a fargli eseguire il riporto, sperimentava il fiocchetto di lana e via di seguito in modo da renderlo il più perfetto possibile. Al ritorno da scuola, pranzava, svolgeva velocemente i compiti e via per i campi e di corsa alle marcite a sguazzare ed a correre, seminando il panico tra i selvatici. Lampo cresceva velocemente ed assomigliava sempre di più al padre, con quel fisico compatto, il torace possente, gli occhi vivaci, lo “stop” marcato e l’andatura rampante. Aveva un istinto innato ed una volontà incredibile. Riusciva a correre per ore senza accusare il benché minimo segno di stanchezza. La sera precedente l’apertura generale della caccia, non riusciva a tranquillizzarsi ed era preso dalla smania. La notte era interminabile; si rivoltava nel letto e, di tanto in tanto buttava un occhiata fuori a strologare il cielo stellato sbuffando e fremendo per l’attesa. Guardava la sveglia e dopo, impaziente si rituffava sul cuscino rigirandosi da un lato all’altro senza pace. Poi venne il gran giorno. Lampo emetteva dei sommessi mugolii, come se sapesse o quantomeno, come se intuisse un qualcosa. Il padroncino spense la sveglia molto prima che iniziasse a trillare; saltò giù dal letto, si sciacquò per bene e si vestì di tutto punto, si avviò all’uscio ed affacciatosi prese una lunga boccata d’aria, quasi a voler riempire i polmoni con quei momenti. Si segnò e udito il fischio del rubicondo Alcibiade si avviò verso il crocevia dove l’omino lo attendeva. Il mugolio insistente di Duck, che nel frattempo saltellava impaziente, uggiolando senza sosta, era l’unico suono che squarciava il silenzio della notte stellata. Si avviarono per la stradella grigia che conduceva nei campi. L’aria era frizzante e le ultime stelle della notte iniziavano a cedere il posto al chiarore dell’alba incipiente, mentre i versi delle nitticore e degli aironi già spezzavano il silenzio ed annunciavano un nuovo giorno. Il bimbo non stava nella pelle per quella nuova avventura e l’omino era impaziente di vedere nuovamente Duck all’opera. Sciolsero i cani e quelli partirono, in due direzioni diverse, correndo entrambi, 6
leggeri e veloci, come trasportati da un mezzo invisibile. Fecero lunghi giri alla ricerca degli effluvi, poi, ad un tratto Duck rallentò la corsa e scattò in ferma. Lampo, che arrivava al gran galoppo, puntò le zampe, diede una brusca rallentata e di scatto si mise in ferma, di consenso al padre. Vedere quei due piccoli cani, immobili come statue, con le zampe nell’acqua della marcita, fissi sull’obiettivo, era uno spettacolo unico per i padroni. I due ausiliari erano perfettamente sincronizzati. Duck, d’autorità teneva la ferma sul selvatico e Lampo, per non rovinare la fatica del padre stava immobile a diversi metri di distanza, aspirando con forza l’aria e fissando la direzione di provenienza dell’emanazione. Alcibiade e Carletto si avvicinarono circospetti , cercando di non sfiorare nemmeno le piante immerse nell’acqua, per fare meno rumore possibile. Arrivati a ridosso dei due cani decisero che era ora di provare a concludere a fecero un mezzo passo in più. A quel punto due dardi partirono sfrecciando verso l’alto in un turbinio di giravolte. Alcibiade che sapeva il fatto suo, indirizzò la Breda e colpì, prima il più lontano e immediatamente il più vicino. I cani scattarono all’unisono, ciascuno per suo conto e, di lì a poco, rientrarono, ognuno tenendo un fagotto che penzolava dalla bocca. Alcibiade era contento per la coppiola e Carletto era felice per il primo riporto di Lampo. Arrivati vicino, i due Breton deposero le loro prede, ma solo nelle mani dei legittimi proprietari. L’omino si volse verso il bimbo e gli disse : “Se non avessi visto io questa scena, avrei avuto difficoltà a credere che fosse vera. Duck è un gran campione ma questo cucciolone sembra aver preso il suo sangue ed il suo carattere. Non mi sbaglio se ti dico che diventerà anche lui un grandissimo cane da ferma per i beccaccini, non foss’altro per il suo padre e maestro e, in definitiva, anche grazie al suo giovane addestratore “. Carletto era chino verso il cane che gli leccava il viso e gli faceva le feste. Quello spettacolo l’aveva lasciato estasiato e non smetteva di accarezzare e lodare il suo magnifico ausiliare. Finiti i convenevoli ripartirono in silenzio con lo sciaquettìo dell’acqua che ritmava i loro passi cadenzati e si confondeva con i guazzi prepotenti dei due cani che, nel frattempo, avevano ripreso in pieno la loro attività. Giunti sul limitare di una pozza larga e profonda , circondata da cannicciole da un lato ed ornata dall’altro da una breve siepe di tamerici avvolte da rovi, videro che i cani arrivavano circospetti e poi si bloccavano contemporaneamente, come in catalessi. Di lì a poco cinque grassi germani si levarono pigri ed in colonna dall’acqua tranquilla e Alcibiade riuscì a bissare la coppiola precedente facendo saltare di gioia Carletto che non smetteva più di esultare e poi di abbracciare Lampo che ritornava, assieme a Duck, con un grosso fardello tra le fauci. I due Breton lavorarono così per tutto il giorno ed al rientro il carniere era più che mai pingue. Alcibiade era felice per l’andamento della giornata e per aver trovato un allievo così entusiasta e Carletto, dal canto suo, fantasticava mille altre avventure e chiedeva una quantità sorprendente di chiarimenti al maestro di caccia. Rientrando sedettero, per riposare un attimo, su un gruppo di pietre vicino ad un grosso albero e guardarono nuovamente il panorama. Tutt’intorno le pozze brulicavano di vita e gli abitanti di quei luoghi, sebbene stanchi e provati per il giorno trascorso , erano in piena frenesia per la ricerca di un giaciglio o per individuare il luogo per il pasto notturno. Alcibiade pensò al suo lavoro e raccontò i sacrifici fatti, ogni giorno, per tirare avanti e per continuare ad inseguire la sua passione e Carletto gli assicurò che avrebbe fatto di tutto per aiutarlo, quando sarebbe diventato più grande. Gli anni corsero veloci e le stagioni si susseguirono in un turbinio di vicende ed emozioni. Molte nuove albe videro assieme il vecchio ed il ragazzo e nel frattempo Carletto crebbe ed iniziò ad affiancare il padre negli affari. La ditta prosperava ed intanto gli acciacchi del tempo si facevano sentire nell’omino del ghiaccio, a causa dell’umido e del gelo assorbito per tanti anni. Un brutto giorno Alcibiade comunicò a Carletto che non poteva recarsi con lui a caccia la domenica dell’apertura, perché il lavoro era diminuito e non aveva nemmeno i soldi per comprarsi il cibo per lui, Duck e la vecchia Brumilde. Lo disse con gli occhi umidi di lacrime e con parole pesanti come blocchi di pietra. Carletto lo guardò commosso ed anche divertito e disse: ” So bene che ora che son cresciuto ti vuoi liberare di me, ma non ti sarà così facile. Abbiamo passato l’estate, senza dirti nulla, per aggiustare la casa del fattore giù al podere nuovo e, siccome c’è -la casa del fattore-, ma non abbiamo il –fattore-, abbiamo anche stabilito di assumerti a paga fissa per condurre il podere, così Duck avrà di che scorazzare e Brumilde potrà galoppare per distendere i muscoli e mangiare un pò di buona melica, al posto del fienaccio secco che gli propini tu ogni giorno”. Alcibiade rimase senza parole e non sapeva cosa rispondere. Guardò Carletto e disse :” Come farò a compensarvi?”. E quello di rimando” Non pensare come farai tu, pensa invece come farò io a compensarti per le cose che mi hai insegnato, per gli anni che hai impegnato a spiegarmele e per il dono che mi facesti il giorno che mi regalasti Lampo”. Il giorno dell’apertura Carletto arrivò al podere nuovo che era ancora buio e vide la luce accesa. Si avvicinò. La porta era aperta ed una grossa scodella di caffelatte fumava su un capo della tavola, mentre dall’altro capo Alcibiade era intento a gettare grossi pezzi di pane nella sua tazza. Duck venne incontro al giovanotto e gli fece le feste. I segni del pelo biancastro sulle sopracciglia e sul muso indicavano un’ età gloriosa per un cane da caccia, ma la volontà era quella dei vecchi tempi. Dopo colazione si alzarono e presero la via del grande acquitrino . Quando arrivarono sul posto il sole già occhieggiava sul limitare dell’orizzonte e la nebbiolina tirata su dal caldo della notte saliva lentamente in alto tracciando dei percorsi sinuosi, simili ad anguille in arrampicata. Sedettero insieme ad ammirare il panorama e Carletto disse : “ Ho visto mille volte questi luoghi ed altrettante volte rimango senza fiato”. E Alcibiade “ Per noi che conosciamo ed amiamo queste paludi, ogni giorno è assolutamente nuovo ed ogni istante vi è un altro insegnamento da apprendere. Se penso a cinquant’anni fa, quand’ero bambino, mi ritornano in mente tutte le emozioni che ho provato. Quanto tempo è passato da allora e come sono invecchiato. Piuttosto, ora anche la Brumilde è in pensione. Lo sai che portandola a spasso nel podere l’altro ieri ho trovato un “passaggio” di colombacci in un boschetto di querce?”. Alcibiade sembrava rinato, con l’aria spirilla e gioviale di un giovanotto. Aveva acceso il suo puzzolentissimo mezzo Toscano facendo indietreggiare Duck che lo osservava torcendo il muso. Gli anni erano volati, ma non invano. Le lunghe camminate nelle marcite e le albe piene di nebbia erano la cornice di un grande quadro che Carletto aveva nel cuore. Tanti insegnamenti ed altrettante esperienze l’avevano aiutato a crescere. La sua bontà d’animo e la gratitudine che provava erano servite a farlo diventare il bastone della vecchiaia per quel povero ma felice vecchio, oramai non più solo . Quella sera famosa, la mamma, nella disperazione trovò la strada per il figlio e gli regalò uno splendido futuro. Il ragazzo aveva avuto un dono ed una guida e ascoltando il suo istinto aveva scoperto le gioie che portano le cose semplici e quotidiane, le tradizioni della gente comune. Carletto guardava Alcibiade sorridendo e pensava al giorno che lo conobbe, sotto le minacce della mamma che gli aveva promesso uno “spauracchio” ed alla prima giornata passata in acquitrino con il giovanissimo e forte Duck e con il non più giovane omino del ghiaccio, a ciò che aveva appreso ed a ciò che ancora doveva apprendere. Ma era sereno, mentre scrutava il cielo crepuscolare e pensava alla recente scoperta del “passaggio “ dei colombacci nel podere nuovo. Un giovane ed un ragazzo, l’esperienza e la saggezza, unite alla forza ed alla fiducia nel futuro, proprio all’inizio di una nuova stagione di caccia ed all’alba di un nuovo capitolo della vita.

Autore: Luca Davide Enna