Caccia e Cultura

Libri, Riviste, Tradizioni... (27)

Steso sulla cassetta dello sciarraban, Rocco aspettava che facesse giorno. Nessuno si fidava più del vecchio cacciatore, che al fucile ormai, preferiva la bottiglia di vino. Ma questa volta, dopo tanto tempo, il barbiere romano gli aveva procurato un cliente, e lui avrebbe fatto di tutto per soddisfarlo. L’oste, come ogni sera, l’aveva cacciato fuori, ultimo tra gli ultimi, stanco com’era della giornata di lavoro; cercava il meritato riposo dal materasso di crine in cui, si raccontava in paese, sprofondava tra i corpi della moglie e dell’ amante, una povera orfana scesa da un paese della Ciociaria per fare i servizi.
La fiamma di una candela agitava le ombre della stanza, mentre Leone scaldava sul fuoco del camino il caffè, come aveva imparato a fare in guerra, unica scusa della sua vita per lasciare il padule. Le anatre, nel pollaio, richiamavano, ad intervalli regolari, i misteriosi voli delle loro simili, nascoste tra le stelle, che in formazione, indicavano la libera rotta verso il Sud. Appena i cani videro aprirsi l’uscio, gli si fecero incontro scodinzolando, c’era pure il vecchio Dick, reduce da qualche scorribanda notturna o dall’ennesima lite con gli altri pretendenti di una cagnetta in calore. Intanto, accompagnato dal fruscio dei falaschi, il cielo, con un tono rosato, si stava schiarendo, srotolando una nuova alba dai monti Aurunci.
Mino, fermo sull’ Appia, malediceva il destino. La 600 l’aveva abbandonato, affidandolo alla tremula luce delle stelle ed alla compagnia delle rane. Sua moglie glielo aveva detto di non azzardare il viaggio da solo. Ma il desiderio di passare una giornata in compagnia di un vero “mestierante”, aveva prevalso. “Meglio la palude che le vostre pallide facce” aveva sentenziato, rivolgendosi agli attoniti colleghi dell’ufficio postale. Ed ora? Ora tutto si stava liquefacendo con le gocce della guazza che scivolavano dal tetto dell’utilitaria.
Il cavallo fece uno scatto in avanti, strappando Rocco al torpore dell’alcol; il campanile batteva le cinque e il suo cliente non era ancora arrivato. “Forse non si sarà svegliato” pensava, “con la pancia piena ed una bella moglie accanto a sé che motivo avrebbe avuto, in questa notte di luna, di venirsi a perdere nel fetore della palude?”.
Leone, con gesto naturale guardò in alto. Sopra di lui, il cielo; fido compagno, che porta il pane con gli stormi di uccelli od il terrore, quando ruggisce e si copre di nuvole cariche di pioggia. L’infinito confessore dei mille pensieri di un uomo silenzioso, che vede passare la vita attraverso i racconti dei clienti, gli stessi che dopo averlo inondato di parole con la forza di una tempesta di scirocco, lo lasciano alla misera monotonia dei giorni uguali. Pochi e selezionati, buoni fucili di cui si fida ciecamente, diversi da quel pestamentuccia che cinque anni prima lo aveva impallinato mentre era intento a recuperare gli uccelli feriti tra i chiari. “Fa parte del mestiere” aveva risposto a chi gli consigliava di chiedere i danni. Fedele al ruolo di chi ha fatto dell’onore e della rassegnazione uno stile di vita, aveva preferito, mentre lo portavano in ospedale, lasciarlo nel suo ebete avvilimento, dopo avergli lanciato uno sguardo di disprezzo, più tagliente della lama di un coltello. Conte, ragioniere o dottore per lui erano solo clienti, buoni per campare; giusti per quello che gli occorreva e basta. Tutti lo cercavano, in molti lo invidiavano ma lui, senza dare confidenza a nessuno, dopo aver raccolto le prede con un rapido giro di sandalo, prendeva i soldi che gli spettavano, solo quelli! Poi, dopo aver dato da mangiare ai cani e alle anatre, rientrava in casa chiudendo l’uscio dietro al mondo con il quale, non voleva e non poteva dividere il dolore che portava dentro, per l’unica gioia che la vita gli aveva concesso, e che la malattia, in seguito gli avrebbe negato...sua moglie.
Ormai era chiaro che il “Romano” non sarebbe venuto. Il sole era già alto quando Rocco, schioccando la lingua, ordinò al cavallo di tornare a casa.
La moglie, nera come un tizzone, lo aspettava sull’uscio pronta a vomitargli addosso tutta la sua ira. “Povero vecchio!”, dicevano in paese, “Con quell’arpia vicino, per forza se ne sta tutto il giorno all’osteria!” E mentre la consorte gli batteva sulla schiena la scopa di saggina, ed i suoi occhi azzurri si stringevano ritmicamente, una piccola fessura si apriva tra le labbra screpolate. Quell’accenno di sorriso fece arrabbiare ancora di più la donna che alla fine si arrese a ciò che lei considerava la follia di un vecchio. Rocco ne approfittò per guadagnare il letto, poi con lo sguardo perso tra le canne del soffitto, che lasciavano intravedere tagli di cielo, non poté fare a meno di pensare che in quei due soldi di vita che il Creatore gli aveva concesso, prima la madre poi la moglie, aveva sempre trovato qualcuno ad aspettarlo, anche se poi lo prendeva a mazzate. Così ormai lui intendeva l’amore e così in fondo, gli andava bene.
Il rombo del motore aveva lasciato il posto al cigolare ritmico delle ruote di un carretto che lo stava trascinando verso un’officina. “Dotto’, stia tranquillo, Onorato è cacciatore come lei, sa riparare i trattori, figuriamoci le automobili.” E poi non aveva altra scelta.
Il meccanico, dopo aver letto la delusione negli occhi di Mino, lo invitò ad ingannare l’attesa prendendo in prestito il suo cane per andare a caccia di beccaccini nei granturchi allagati che circondavano la strada: “Famo tutto un conto!” Mino non se lo fece ripetere due volte, calzò gli stivali nuovi di zecca, scese l’argine del canale, e seguendo il bracco pointer che già divorava la pianura, si perse nel mare di canne.
Dallo spiraglio della porta che Norma ha lasciato socchiusa per non disturbarmi, intravedo i miei ospiti con altri amici giocare a carte, tra fumo, maledizioni e vino mentre nel camino tira un fuoco che arde con avidità.
Rannicchiato sul lettino che Rocco usa come avamposto per accorrere alle stufe delle serre, quando il termometro va sotto zero, resto combattuto tra uno spicchio di cielo stellato che traspare dalla finestra e la gaiezza conviviale della compagnia seduta intorno al tavolo.
La mia bracca dorme saporitamente distesa davanti al fuoco dove impertinenti gatti di casa, strinandosi il pelo, le contendono il calore.
Decido di concedermi ancora un po’ di riposo e di riflessione, ne ho bisogno, con tutto quello che mi è accaduto in questi mesi. Mia moglie mi ha lasciato, perché ha sentito che non ce la faceva più a sopportare una nuova stagione fatta di lontananze, non solo fisiche, e discretamente, come sua abitudine, se n’è andata lasciandomi con il mio rimorso.
Per non permettere alla tristezza di sopraffarmi ripercorro la giornata appena trascorsa; i ricordi e le emozioni si accavallano fino ad ordinarsi con esatta cronologia.
Vigilia di Natale: Rama, come al solito, si è comportata bene, incrociando tra giunchi e falaschi incurante delle gelide acque dell’acquitrino. Un beccaccino pasturone senza troppi complimenti, dopo averci fatto passare, era schizzato via confondendosi tra torba e cielo. La cagna lo aveva inseguito con rabbia, quasi consapevole di essere stata beffata.
L’attraversamento del canale dell’idrovora è un’impresa rischiosa, meglio aggirarlo dal ponte di legno. Ponte, si fa per dire, una pertica appoggiata tra le rive ed un’altra più in alto a mo’ di passamano, alla vecchia maniera. Transitare sopra queste passerelle improvvisate è sempre un terno a lotto, qualche volta si cade, inciampando sul cane o scivolando sul precario appoggio. L’importante è scaricare sempre il fucile per non rendere ancora più drammatico l’eventuale bagno.
Non vedo la bracca, ma la intuisco in mezzo alle canne grazie ai pennacchi che si piegano al suo passaggio come per riverirla.
Un uccello nero si leva poco più avanti; è una gallinella, una pollastra come la chiamano da queste parti. La fermo di prima canna, quale miglior regalo stasera per i miei ospiti. Buffa questa gente, tratta i fagiani come galline, ma esalta culinariamente i ralli, contenti loro!!
Una distesa di cannuggiole tagliate basta a far cambiare marcia alla bracca che adesso, seguendo una flebile bava di vento, mi porta dritto dritto sul bandolo di un‘emanazione sicura. Mi accosto quasi in punta di piedi, pardon di stivali, alla cagna che fremente, in plastica ferma, mi indica la direzione. Lo schioccare di due baci elettrizzanti, viene interrotto da una precisa coppiola. Nella palude ritorna il silenzio.
Una bufala ci segue con lo sguardo senza abbandonarci un attimo mentre, goffamente, attraversiamo il giuncheto terribilmente urticante. La bracca sembra non accorgersi delle punte che le stanno trafiggendo la pelle e, sicura come un treno, arriva sul chiaro giusto in tempo per dichiarare “tana” ad una coppia di alzavole che indispettite dalla presenza estranea colonnano verso il cielo. Inutile azzardare tiri lunghi, con il risultato di ferire gli animali che andrebbero a morire lontano. Meglio ammirarli mentre riprendono il vento e si affilano al lago alla ricerca di luoghi meno disturbati, per nulla infastidite dalle schioppettate inopportune del solito matto che spara comunque, e a qualsiasi altezza.
Bufale permettendo ci distendiamo sotto il tamerice posto a guardia della piscina della vecchia idrovora. La colazione viene divisa da buoni amici, Rama si struscia pesantemente sull’erba mentre io come consuetudine sistemo il carniere, ammirandone la policromia. Liscio le penne per ordinarle, rifuggendo da quel triste costume di molti cacciatori che sfigurano i selvatici ammassandoli disordinatamente dove capita, buste di plastica e simili, con il risultato di svilirne l’armonia, che se pur spenta nell’ immobilismo della morte va sempre rispettata.
Un cane, seguito dal cacciatore, avanza dalla parte opposta del padule, battendo con attenzione le luccicanti guinze tra i “becchi di flauto”. Gli mostro il panino in segno di offerta, ma dopo avermi sorriso continua ad ispezionare il canneto tagliato. Il suo cane è ora in ferma e lui con calma lo affianca. Parte un beccaccino, anch’esso materializzatosi dal nulla, che viene centrato in pieno da una precisa stoccata. Come d’incanto, così come era comparso, invece di cadere a terra l’uccello si dissolve in aria. Resto con il boccone tra i denti attonito,mentre lo strano cacciatore si avvicina e si siede accanto a me. Ho voglia di scappare ma resisto. Siamo soli, e mentre i cani si scambiano i soliti convenevoli, fatti di annusate e sospettosi girotondi, decido di rompere la tensione:
“Buongiorno, posso offrirle un pezzo della mia colazione?”
Nessuna risposta arriva dal misterioso personaggio che dopo un ennesimo largo sorriso scompare insieme al cane lasciando sul terreno un libro aperto.
Mi alzo di scatto spaventassimo, stavolta scappo, poi cedo alla curiosità, prendo il libro tra le mani, e leggo; sono riflessioni che suonano come un testamento spirituale: “Nelle mie ventotto licenze quanti Natali, ho passato in casa a godere le gioie della famiglia, giocando alla tombola o passeggiando colla moglie sino all’ora che anche i caffè in città chiudono i battenti e tutti si mettono a tavola a mangiare il tacchino? Forse due o tre e bisogna pure che facesse un tempo da lupi per impastoiarmi tutto il giorno tra le mura domestiche, con perdizione dell’anima per via delle bestemmie contro gli elementi e chi per essi, e a scapito della pace familiare. Non mai come la vigilia e il giorno di Natale la natura cade in grembo alla mistica pace: il villano, uso anche nei giorni di festa a visitare il campicello, per dare l’ultima mano alla bisogna lasciata incompiuta il giorno avanti, (...) il giorno di Natale non si strania. E ogni rumore è spento: non colpi di fucile, non rotolio di carri, o richiamo di gente o latrare di botoli: solo, sull’ali del vento, vengono rintocchi gravi delle maggiori campane. (...) Caro Floch! Vedi soli e liberi come sempre, tutto il mondo è nostro. Ecco sotto di noi l’umanità con le sue miserie. (...) Rientro in città che tutte le luci sono accese e gli uomini dabbene passeggiano con la famiglia, pigri, insonnoliti e col fiato grosso, più goffi ed ebeti del consueto per soverchio lavorio del ventre. Mi guardano e mi compatiscono, come uno spregiudicato che viva fuori dalla legge; e non sanno, gli infelici, che anche oggi, e più degli altri giorni, perché la solitudine e la pace erano più grandi, io sono stato a colloquio con Dio, anche se l’ho bestemmiato.”
Chiudo il libro delicatamente, sulla copertina ingiallita dal tempo, un disegno infantile ritrae un carniere aperto su una vecchia doppietta e in calce il titolo: Cacciatori si nasce di Eugenio Barisoni 1932.
Una mano lieve mi sfiora il viso, è Norma che è venuta a svegliarmi per invitarmi a tavola. Questa notte di vigilia ho voluto passarla con loro, amico tra gli amici, e con la mia bracca, che a dieci anni mi regala ancora emozioni. La guardo fisso nei suoi occhioni dolci a domandarle: “Abbiamo forse sognato?”
L’allegria di questo piccolo spicchio di umanità perso nella palude riesce a scaldarmi il cuore. Gli spaghetti con il tonno, i cefali alla brace e l’immancabile capitone annaffiato dal corposo vino di Campania, poi di corsa a letto domani è un altro giorno, forse andrò a beccacce nella macchia sempreverde o ripercorrerò gli angoli di palude che oggi ho trascurato.
...La mattinata è trascorsa in fretta, se non mi sbrigo non faccio in tempo ad arrivare per pranzo. I pini marittimi che costeggiano l’Appia sfilano velocemente ai lati della automobile perdendosi in lontananza nel riflesso dello specchietto retrovisore. Apro la porta di casa e vengo investito dal mio piccolo di sette anni, Edoardo, che pretende il regalo, lo cerco affannosamente nella borsa e glielo consegno. Passandosi una mano sulla fronte, Loredana mi viene incontro: “Capoccione, non ti sei voluto perdere il rituale della cacciata natalizia, tutto bene?”.
La mia giovane bracca italiana, Tosca, si lancia sulla zuppa speciale che la padrona le ha preparato, ed io mi siedo a tavola cercando non senza difficoltà, di staccare dalle cartucce e dal carniere mio figlio perché faccia altrettanto. Mentre assaporo il tiepido conforto dei cappelletti in brodo, ritorno con il pensiero a quella vigilia di otto anni fa, ma poi sorrido e penso che per la caccia, come per la vita è sempre domani.
Un refolo di vento ha invitato a danzare una manciata di foglie secche.
Lo vedo alzarsi a colonna e spazzolare tra la polvere, così come le dita di mia madre frugavano tra i miei capelli, quando sporco di campagna, rientravo da una scorribanda sulle colline di periferia dove cercavo libertà ed avventura.
Mi provoca l’infame! Se potessi alzarmi e dargli un calcio…
Mi stuzzica, lui che può e si alza e danza.
Dannata gamba che non vuole più fare il suo dovere.
Ben ti sta, così impari, ad inseguir da solo, avventura e libertà sulle colline. Anche adesso, che le colline son cresciute come i tuoi anni per farsi montagne.
Come faceva quella canzone?
Mi teneva compagnia quando di notte mi svegliavo nel buio della stanza e chiudevo gli occhi per farmi coraggio, finché la luce filtrava dalle fessure della porta ed il lettone cigolava. Era Papà che roteando i piedi alla ricerca delle pantofole, proprio come il refolo con le foglie, mi veniva a salvare.
La caviglia si sta gonfiando, mentre sento un freddo pungente salire verso la coscia.
Dio, se la beccaccia non fosse sprofondata nel canalone, a quest’ora sarei già a casa a rimescolar ricordi ed emozioni.
È buio.
Provo a chiudere gli occhi, come facevo da bambino, ma il naso umido del cane che spinge sulla mia mano, quasi a sincerarsi che la vita mi resti fedele quanto lui, mi costringe alla realtà.
Un rumore, un rotolar di sassi, forse la volpe od il cinghiale o la vecchia amata bracca, compagna di tante storie, di tanti anni fa.
“Ciao Rama”, la vedo seduta tra un leccio ed un pungitopo che mi invita ad andare.
No è più semplicemente la mia speranza di salvezza, che si materializza ad ogni movimento, in ogni presenza.
Accarezzo la testa del cane e scopro la regina, fredda e abbandonata accanto a noi.
Se non fosse sprofondata nel canalone, non avrei mai messo il piede su quel sasso.
La cagna era ferma ed avevo tutto il tempo di compiere “quel mezzo giro”, mantenendomi largo per non disturbare l’azione, e chiuderle la via di fuga. Che bisogno c’era allora di correre?
“Piano Mino piano”, mi ripeteva sempre mio padre, “Carica il tallone quando scendi, mai la punta.”
Ma che bisogno c’era di correre?
Una goccia di sudore scivola lentamente tra le pieghe della fronte fino a fermarsi sulle ciglia. Poi arriva sulla guancia e si fa lacrima, poi un’altra ed un’altra ancora.
Il cane intuisce e si avvicina.
È buio e non vedo spiragli di luce.
Come faceva quella canzone?
Ogni volta che mi appresto a scrivere il reportage della giornata di caccia, mi sento come un amante annoiato. Il problema è cominciare, poi, man mano che le cose procedono mi piace, e il difficile diventa fermarsi.
Una parola tira l’altra, il ricordo si fa sempre più nitido, le azioni si susseguono e quando ho concluso, sfinito ma soddisfatto, mi accendo un’ideale sigaretta.
Mentre sto ordinando i fatti e le emozioni, una soffice piuma screziata si posa dolcemente vicino alla mia penna, alzo gli occhi e vedo, sull’angolo opposto della scrivania, un beccaccino che mi guarda. La presenza amica non mi distoglie dal diario.
22 Novembre 1991, tempo perturbato, la piana è completamente sott’acqua. Alla fine di Ottobre violenti temporali hanno portato lo scompiglio nella provincia di Latina. La maggior parte dei bellissimi pini marittimi che costeggiano la Fettuccia da Cisterna a Terracina sono stati abbattuti dalla furia del vento. Rocco, l’amico contadino, mi ha detto che conosceva bene quei tre poveri disgraziati finiti con la macchina nel canale. Inghiottiti dalla corrente limacciosa, li hanno trovati diverse miglia al largo del Circeo.
Sarà cinismo, ma la furia della natura mi affascina, perché mi riporta alla dimensione primordiale di uomo, con tutte le ataviche paure e insicurezze che le comodità del progresso ci hanno tolto, forse impoverendoci un po’. Il fortunale ci ricorda che l’ingegnere meticoloso può progettare un ponte, affrancandolo contro la più terribile delle catastrofi conosciuta, ma ci sarà sempre quella sconosciuta, più forte e più cattiva. Tale almeno la definiremmo per il male che ci fa. Questo agitarsi di emozioni, il non riconoscersi nella paura comune ma ricercare le difficoltà che la natura ci oppone come la stanchezza, la sete e la fame è tipico di “Noi” cacciatori. Ma chi siamo? Probabilmente quegli uomini/bambini, che per un giorno svestono i panni lindi e rispettabili che il lavoro impone, per indossare il gilet, senza la paura che la mamma ci strilli per averlo sporcato. Mistici, ci accomuniamo senza riserve tra ricchi e poveri. Bestemmiando il Creatore, sacrifichiamo alla nostra presunzione di onnipotenza la selvaggina, ma contemporaneamente ne condividiamo il destino.
Il cacciatore è sano e libero, belle parole, in cui si riassume l’essenza del nostro credo.
Sono ben lungi dall’immaginare che proprio oggi, lo specchio della mia identità mi verrà posto davanti con tutta la sua crudele realtà mentre sto percorrendo il bordo di uno dei canali non cementificati della piana. L’acqua uscita dal lago ha reso il paesaggio simile ad un enorme chiaro. Mi sono fatto lasciare da Franco sul l’argine della vecchia idrovora e contro il suo parere sono sceso nella Goffa. Affidandomi all’esperienza ed alla memoria metto un passo ed un pensiero dietro l’altro, sulla carrareccia che costeggia il canale, un movimento falso e finisco dentro. Ercole mi precede, perso in tanta acqua è alla ricerca di una zona emersa su cui cercare una possibile preda. Il cielo è sempre più scuro, sono le nove del mattino ma sembra notte. Alle mie spalle sento tuonare, mi volto e vedo un ammasso di nere nuvole minacciose, ancora più basse delle altre, entrare da mare sopra Terracina e scaricare pioggia e lampi sul porto. Confido che il vento le trascini via, verso Latina. Sono sempre più solo ma forse oggi sto cercando proprio questo. Supero il piccolo boschetto che costeggia il canale; da un orto semi asciutto, parte un beccaccino, non riesco neanche ad incannarlo. Vola via. Mi chino sul punto di levata per verificare le fatte, ma mentre sto rovistando con un bastoncino tra la vegetazione rada, con il rumore di una turbina lanciata a velocità folle, la pizzarda mi passa a pochi centimetri dall’orecchio. Come nel periodo di passo, cerca di rimettersi nell’unica pastura conosciuta della zona. Mi alzo di scatto, provo ad imbracciare ma è già dietro il bosco. Lo aggiro, per cercare un’improbabile vicina rimessa, ma quando sono dalla parte opposta mi trovo davanti un muro d’acqua che con un muggito minaccioso viene verso di me. Non perdo tempo; alla mia destra vedo uno di quei casotti di tufetti utilizzati dai contadini per la raccolta estiva dei pomodori. Prendo il cane per la collottola, spalanco la porta con un calcio e lo butto dentro seguendolo. Un boato, mi avvolge, il tetto di lamierino leggerissimo sbatte violentemente, la porta sembra reggere, ma ho lo stesso tanta paura. L’acqua mi arriva alle caviglie, decido allora di sedermi, insieme al cane su un tavolaccio situato al centro della baracca. La tromba d’aria è finalmente passata, ma la pioggia non cessa e quel che è peggio l’acqua continua a salire. Non ci sono finestre e se non faccio qualcosa finisco come il topo. Non ho altra scelta, devo uscire. Mi calco il cappello in testa, fisso bene gli stivaloni alla cinta, chiudo il moorland, benedetto sia in questi frangenti, ed esco fuori con l’acqua che mi è arrivata oltre il ginocchio. Il ritorno è una pena, il cane praticamente nuota ed io fatico il doppio, imbacuccato senza poter alzare gli occhi. Cammino di traverso guardando avanti grazie alla fessura tra il bavero ed il cappello. Finalmente arrivo all’idrovora, sono fuori ma Franco non c’è. Mi sta cercando con la macchina sull’argine che cinge da tre lati la piana. In questo momento sarà probabilmente dalla parte opposta.
È incredibile come in questi casi il più piccolo riparo sembri comodo; poco più in là vedo un gruppo di marruche che come ogni buon cacciatore di beccacce sa, hanno la particolarità di essere fitte in alto e rade a terra. Mi infilo dentro alla maniera dei cinghiali e aspetto. Grandina, il paesaggio assume degli aspetti primordiali, sono tranquillo ma soprattutto non ho più paura. Mentre sto considerando sull’aria malinconica dei luoghi, un beccaccino mi sfiora a poca distanza lanciando il suo bacio di scherno. Sono in una posizione di impotenza, raggomitolato in un cespuglio per ripararmi dal maltempo mentre lui è invece libero di librarsi in volo. Quel bacio è un inno alla libertà, a cui assisto quale contraltare goffo, benché tutti e due siamo uniti dall’identica ricerca di paesi che non esistono più. Siamo attori di una stessa commedia che a lungo andare non concederà più repliche.
Così mi domando cosa ci sto a fare in quella posizione buffa. Esco dalle marruche do’ un bel respiro e quando finalmente vedo in lontananza arrivare Franco gli vado incontro.
Ed ora che tutto è passato, tu amico beccaccino sei ancora qui a schernirmi? O cerchi compagnia.
Forse ti dovrei descrivere, ma oggi a chi interessa? Basta comprare un’enciclopedia in fascicoli dal giornalaio. A noi due no, non basta perché quello che conta non è la somma di vuote formule ornitche ma il rituale appuntamento che ogni autunno si ripropone fino a quando uno di noi due non lo rispetterà.
Buonanotte!

Puntuale come il minimo regolare della sua Guzzi, Antonio si era presentato all’appuntamento. L’umidità della notte aveva reso viscido il manto stradale che lustro come uno specchio rifletteva la luce gialla del grosso faro. Non era un vero e proprio appuntamento, di quelli per intenderci che si stabiliscono la sera prima, ma più semplicemente una consuetudine: Antonio lavorava di notte come meccanico presso il deposito degli autobus dell’azienda municipale e staccava all’alba, giusto in tempo per andare a prendere il suo amico, il Maresciallo, che durante la stagione venatoria faceva carte false per farsi assegnare il turno di notte ed essere di conseguenza libero durante il giorno per dedicarsi alla sua passione di sempre: la caccia.
I due erano profondamente diversi: Antonio era quello che si può definire un pezzo d’uomo, alto più del normale, con tanti capelli in testa conservava, malgrado gli anni, un aspetto da ragazzo con un sorriso sincero che piaceva alle donne. Il maresciallo al contrario, dimostrava tutti gli autunni che i suoi occhi avevano visto: più di cento chili portati allegramente ed un faccione bonario, da racconto di Guareschi, sul quale spiccavano due baffetti da “tombeur de femme”, “..la mia arma segreta con le donne” come spesso amava ripetere.
Antonio iniziava ad innervosirsi, il tempo passava e la strada da fare non era poca. Il Maresciallo aveva prestato servizio negli anni della guerra, da poco finita, presso la piccola caserma di un paesino ai confini tra Lazio ed Abruzzo, assorbito nell’unico incarico di mantenere l’ordine tra gli sfollati. Per sua fortuna la pace regnava tra quella povera gente, e lui aveva un mucchio di tempo libero.
Sebbene il comando tedesco avesse intimato la consegna di tutte le armi, comprese quelle da caccia, disubbidendo all’ordinanza, aveva nascosto la fida doppietta cal. 16 in un pagliaio, ben avvolta da uno straccio impregnato d’olio, perché si conservasse dall’umidità. Complice del suo unico reato un paesano, uno di quelli dai quali un servitore della giustizia si dovrebbe tenere lontano. Franco Del Duca, questo era suo nome, sopravviveva con quello che ogni nuovo giorno gli offriva: faceva la staffetta con il tabacco di contrabbando, che una volta quasi restava falciato da una scarica dei militi, o metteva i lacci nelle riserve padronali. Nei periodi di secca pescava di frodo con le mani nelle buche e di notte si riempiva di gamberi che vendeva ai ristoratori romani. Qualche piccolo lavoretto serviva infine a garantirgli un pasto caldo ed una notte di passione da una delle vedove, che sempre più giovani e numerose abitavano in paese…e così gli scorreva la vita.
Portava sempre con sé una doppietta cal. 16, un Bayard che il padre gli aveva consegnato poche ore prima di partire per la guerra, quella di Spagna, dalla quale non sarebbe più tornato.
Il maresciallo aveva trascorso quegli anni come i più belli della sua vita. La guerra era nei racconti di chi ogni tanto passava per andare o, negli ultimi tempi, per scappare dal fronte. Le lunghe file dei mezzi militari attraversavano il paese sollevando la curiosità dei vecchi. I giovani e le donne se ne stavano nascosti, i primi per paura di essere deportati, mentre le seconde per la fama che quegli uomini, alti come alberi, si portavano dietro. Tutto quello che c’era da sapere sul paese, lo aveva imparato da Franco. Gli aveva mostrato i covacci delle lepri tra le stoppie residue e come le donne si trasformassero, in una facile preda, mentre spigolavano, da sole, lungo i campi. Lo portava con sé a spiare le starne quando, la sera, si spollinavano sulla strada e gli aveva indicato il varco dei cinghiali sul greto del torrente.
Quanto tempo era passato da allora, pochi anni ma sembravano secoli, sufficienti per dimenticare un amico ed incontrarne un altro che, con la sua esuberanza, lo faceva sentire vivo alimentando una passione che gli anni altrimenti avrebbero, se non sconfitto, almeno sopito.
Ed invece eccolo lì, sulla porta della caserma, già pronto per la nuova giornata di caccia.
Al ritmo “dell’affettasalame”, il grosso volano cromato, la moto saliva per la Tiburtina lasciandosi alle spalle la città che ancora dormiva. Curva dopo curva le cime delle montagne si facevano più vicine, mentre ai lati della strada, cadaverici ruderi di case bombardate ricordavano i tristi eventi appena trascorsi. Ogni tanto una flebile luce testimoniava un’ostinata presenza umana, mentre i contorni delle montagne si rendevano sempre più nitidi man mano che la luce dell’alba invadeva la scena. Qualche uccello notturno si faceva sorprendere sull’asfalto dalla luce del faro, salutato dall’abbaiare dei cani che ingolfavano uno dei due posti del vetusto sidecar. L’autunno era alle porte e l’aria frizzante del mattino puliva il viso, e la mente, dalle rughe del vivere quotidiano.
Finalmente arrivarono alla meta, un piccolo casotto rosso di quelli utilizzati dagli stradini per appoggiare gli attrezzi. Antonio possedeva, chissà come, la chiave del lucchetto e dopo aver scaricato il bagaglio, spinse il pesante mezzo all’interno della semplice costruzione che già, il maresciallo, gli urlava di sbrigarsi perché il sole era ormai alto.
Avanzarono con i cani al guinzaglio lungo un prato che separava due colli. La rugiada del mattino bagnava gli scarponi, “Roba di prima della guerra”, ripeteva a voce alta, quando le cose le facevano bene. Avesse visto Antonio, pesava tra sé, le scarpe di cartone che avvolgevano i piedi dei suoi camerati in Albania, pochi passi nell’acqua bastavano per perdere la suola eppure marciavano, in silenzio, come eroi predestinati, perché altro non si poteva fare.
Erano arrivati al centro della valle, quando dalla cima delle colline gli giunse il canto delle starne. Individuarono la brigata più vicina e, sciolti i cani, si allargarono per non disturbarsi e tentare di chiudere le pernici, che al primo accenno di ferma frullarono con fragore, lontano dalle doppiette. Al secondo tentativo alcune si sbrancarono, una in particolare, dopo essere passata sulla testa del maresciallo a doppietta scarica, si infilò in una rogara: “Sei fatta” penso dirigendosi prontamente verso la rimessa.
Un breve dettaglio nel punto in cui la starna probabilmente aveva toccato terra che non dava adito a dubbi: l’aveva nel naso. Alla ferma del cane si spostò verso la vegetazione, poi cambiò idea. Infine scelse la posizione e comandò al bracco di forzare il selvatico. Un frullo, uno sparo e tutto era finito. Il cane riportò la starna senza sciuparla, cosa che destava meraviglia ogni volta in Franco, che non aveva mai posseduto un cane da ferma.
La giornata si srotolò tra ferme, frulli e qualche padella, fino a quando, ormai appagato, Il maresciallo decretò che era giunto il momento di rientrare. Arrivarono, alla moto, madidi di sudore ma felici. Un discreto carniere di starne uscì dalle cacciatore, per essere religiosamente riposto, nel vano del sidecar. Poi fu la volta dei cani che si acquattarono all’interno dello stesso. Infine salì il Maresciallo con i fucili ed Antonio, dopo aver preso posto in sella, si alzò in piedi sulle pedane, scalciò sulla pedivella, ed acceso il motore, prese la strada del ritorno.
Avevano percorso pochi chilometri quando il Maresciallo, strattonandolo per la giacca di pelle nera da vero motociclista, intimò ad Antonio di fermarsi. Capitava ogni volta che passavano davanti a quella piccola costruzione bianca che, pur non essendo un cimitero, ne aveva tutta l’aria.
Il Maresciallo scese dalla moto e, dopo essersi fatto il segno della croce entrò. All’interno c’era una lunga fila di lapidi, ognuna di queste portava una fotografia e qualche fiore appassito. La costruzione era appena abbozzata perché si doveva ricostruire per i vivi e nessuno si preoccupava ancora dei morti.
Le date ricordavano uomini giovani anche se, dalle foto, sembravano vecchi. Tra queste una riportava il nome di Franco Del Duca.
Era accaduto negli ultimi giorni d’occupazione. Franco, ignorando le raccomandazioni del compagno, si era fatto sorprendere, con la doppietta, all’interno di una riserva padronale. Un guardiacaccia, troppo zelante, lo consegnò ai carabinieri dai quali fu prelevato, con la forza, da un gruppo di tedeschi in ritirata. Sul camion che lo trasportava c’erano uomini di tutte le provenienze, alcuni ebrei e qualche partigiano. Appena usciti dal paese, dopo averli fatti scendere dal camion, li falciarono con una scarica di mitragliatrice. Di tutti quei giovani, Franco, era stato l’unico ad avere il privilegio di morire con il profilo delle sue montagne negli occhi.
Lui, Il Maresciallo, non aveva potuto far nulla perché, in quei giorni, si trovava a Roma per accudire sua moglie mentre metteva al mondo il loro terzo figlio, quello che avrebbero chiamato Franco.
La voce di Antonio che lo chiamava lo riportò alla realtà. Un giorno forse avrebbe raccontato all’amico quella storia che, oggi, faceva ancora troppo male. Si avviò, come sempre senza voltarsi verso l’uscita, con la morte nel cuore mentre, il ritmo regolare del minimo della Guzzi, lo richiamava alla vita.  

                                                                                                             Giacomo Cretti