Classe di ferro 1895; si era sciroppato tranquillamente due guerre. La prima, la “grande guerra”, nelle trincee del Carso e poi a marciare, vecchio scarpone, sui monti e giù , lungo il Piave, nel tentativo glorioso di fermare lo “straniero” invasore. Certo, sul Carso era molto più giovane e saltava nelle trincee come uno stambecco in fuga, ma anche adesso, il fisico e l’età non troppo avanzata, uniti alla conoscenza dei luoghi lo rendevano quasi padrone di quelle montagne. Anni dopo, nuovamente in marcia, ora su Roma, contro i disordini e gli “imbelli”, attratto dal nuovo “faro “ nazionale rappresentato dall’ ”uomo del destino”. Vent’anni di marce e adunate e infine la seconda grande guerra e la delusione per le scelte sbagliate del “suo” capo e condottiero e il rimpianto per la sua gente con gli orrori e la miseria lasciati come ricordo vivo su un popolo pesantemente provato e profondamente sconfitto. I giorni di Piazzale Loreto ed i rastrellamenti e poi lo sconforto per tutti gli avvenimenti e per gli anni trascorsi. Dopo la guerra e la distruzione era arrivato il periodo delle vendette e dei regolamenti dei conti. Lui conosceva bene la situazione e, pur non avendo mai fatto del male a nessuno, sapeva che qualcuno avrebbe potuto cercarlo. Aveva la coscienza serena, ma quella folata di nuovi venti di odio non gli dava pace. Nei momenti di pausa pensava alle battaglie, agli amici scomparsi, al Pinin, al Luigino, al Mariotto o al caporalmaggiore Lusetti ed a cento , mille altri che diedero la vita per la propria Patria e per il proprio popolo. L’autunno incipiente ed il profumo dei rododendri lo strappavano con forza per riportarlo al presente, ma lui divagava e pensava con tristezza alla sconfitta ed alle vendette collaterali, alla chiusura di un’ epoca ed all’avvento di una nuova. Il Governo, pressato dalle richieste insistenti, aveva promesso che sarebbe intervenuto per fare chiarezza; i parenti delle vittime dell’odio aspettavano, ma oramai erano passati alcuni anni e nulla si era saputo, se non che migliaia di famiglie piangevano i loro cari, in silenzio, senza più speranze di ottener giustizia. Molti suoi amici: proprietari terrieri, studenti, insegnanti, dirigenti, avevano subìto ritorsioni ed alcuni avevano pagato con la vita la loro vera o presunta appartenenza al partito. E’ il destino dei vinti, vittime del rancore e, a volte, vittime della storia. Là in alto, vicino al cielo, credeva di trovare più conforto, di sentirsi sereno, accanto a Dio, anche quando l’angoscia per quella stagione dell’odio lo attanagliava con le sue immagini sparate nella mente come bagliori improvvisi. Lui aveva comandato una divisione, aveva perso molti uomini e fino all’ultimo si era illuso di poter salvare la Patria, ma sapeva bene che le sue speranze erano vane. L’aveva scoperto fin dal giorno che i capoccioni avevano deciso di spostare il Governo e la repubblica stessa, dall’Urbe, fino a quella che lui chiamava “la repubblica dei salotti”, dando ad intendere che “quelli”, assieme ai crucchi, avevano già deciso tutto, comodamente seduti in qualche boudoir.
Ma oramai, anche quella era una storia chiusa. Il popolo è severo nel giudizio, così com’è esaltato nell’acclamazione. Nell’incontro tra il giovane scrittore Ugo Foscolo e Giuseppe Parini, l’anziano poeta diceva: ”L'umanità geme al nascere di un conquistatore; e non ha per conforto se non la speranza di sorridere su la sua bara”… In sintesi un giudizio lapidario che aveva portato i responsabili delle tragiche e folli scelte, dai fasti di piazza Venezia al tragico epilogo di Piazzale Loreto. Anche un “vecio” come Giuanin aveva dovuto fare i conti con la storia e cercava disperatamente di farli pareggiare. Si ripeteva che, in fondo, aveva sempre fatto il suo dovere, anche quando aveva chiuso un occhio per far sì che qualche ragazzo scampasse dalla prigionia, come quella volta del “biondino”. Giacomo, detto il “biondino” era diventato un avversario, sebbene all’inizio fosse solo un povero disgraziato scappato ai rastrellamenti assieme ad una manica di sbandati. Lui, Giuanin, li aveva beccati nascosti in una stalla e, prese le generalità, sulle prime aveva pensato di consegnarli, ma poi, spinto dal rimorso e conscio che quei ragazzetti avevano su per giù l’età del figlio, li aveva fatti nascondere e aveva indicato loro il modo per scappare sui monti. Alcuni di quei ragazzi si aggregarono alle truppe di liberazione ed al momento della resa dei conti andarono a rastrellare quanti più “nemici “ potevano. Tra essi vi era un gruppo che , per contrapposizione all’esercito “regolare”si chiamava: le “Penne rosse”. Erano spietati e non facevano prigionieri. Il biondino assistette una volta ad un processo sommario e questo bastò a fargli capire che non era giustizia, ma solo vendetta quella applicata dai suoi amici, per cui, prese la sua strada. Tutto capitò per caso, un giorno. Durante uno degli ultimi assalti catturarono un piccolo drappello di Penne nere che rientrava presso le linee difensive. Fecero un breve processo e decisero di metterli al muro l’indomani mattina. Il biondino riconobbe subito il Giuanin, ma fece finta di nulla, per non compromettere se stesso ed i prigionieri. A notte inoltrata, poi, liberò tutti e si mise in fuga per non subire ritorsioni. Al momento dell’addio guardò il “vecio” e gli disse: “Vi ho reso il favore, ma vedete di non scontrare nuovamente i vostri scarponi con i miei. I vostri amici crucchi mi hanno fatto orfano e vi salvo la vita solo per rendervi pariglia, come avete fatto voi quando ci incontrammo. E adesso, ognuno per sé e Dio per tutti”. Si girò di spalle e scomparve nel buio. Da allora non si videro più. La guerra finì come finì e la liberazione durò ancora alcuni anni, perché con qualche scusa diversa, c’era sempre qualcuno che si voleva “liberare” di qualcun altro…. I luoghi delle battaglie divennero silenziosi e la natura riprese possesso dei suoi territori. Con difficoltà e laboriosità risanò le ferite e fece crescere un manto di erbe e fiori nelle fosse lasciate dai mortai . L’acqua levigò i lati delle trincee rendendole meno aggressive e cespugli ed arbusti abbellirono gli avamposti abbandonati. Sulle cime regna sempre un silenzio maestoso, rotto di quando in quando dai richiami di qualche rapace o dai versi degli altri animali montani. Da tanti anni Giuanin conosceva quei luoghi ed i richiami e gli erano familiari, ma per diverso tempo era stato lontano a causa delle umane vicende che spingono un uomo in divisa a difender la Patria, anche in nome di un’idea sbagliata. Si consolava solamente durante le giornate trascorse in mezzo ai boschi, tra le fronde, a contatto con gli alberi che lo avevano visto crescere: in silenzio, da solo e con la suo Birba, una pointer bianco-nera …. Un suo caro amico, Gianmarco, l’aveva recuperata presso un’aia di contadini, dopo essersi informato dell’origine e degli eventuali proprietari. Aveva ottenuto la risposta che in quella fattoria c’erano già troppi cani da mantenere e che quella cucciolata era di undici cuccioli, quindi, almeno quella canina era da “sbolognare”, così la prese con sé e ne fece dono al Giuanin. Erano gli ultimi due anni della seconda grande guerra, quindi, l’allevamento e l’addestramento della vivacissima Birba furono eseguiti, non senza difficoltà, ma, la sua naturale predisposizione e la grande volontà ne fecero comunque un esemplare eccezionale. Una volta concluso il conflitto mondiale, Giuanin passava più tempo possibile nei boschi insieme a Birba e cercava di unire l’utile di procacciarsi il cibo al dilettevole, di svagarsi, dopo gli anni passati a marciare “ per conto terzi”. Beccacce, starne, bianche, beccaccini, galli, non vi era alcun selvatico in grado di scampare al fiuto di quella cagna. Lei riusciva ad intrufolarsi dappertutto, incurante dei graffi. Il manto la faceva ritrovare in mezzo al fogliame, anche se aveva un collegamento istintivo al proprietario, perciò, dopo ogni esplorazione, ritornava alcuni metri indietro per valutare la posizione di Giuanin. Gli occhioni dolci e vispissimi, il muso umido e quelle orecchie nere e triangolari gli davano un aria buona, ma birichina, forse per quello il padrone l’aveva chiamata Birba. Tempo dopo, Giuanin aveva saputo che la cagnetta era di proprietà dei Tomelli, i contadini possidenti della famosa fattoria dove Gianmarco la trovò. Grandi appassionati delle cacce con il cane da ferma, in quel periodo i Tomelli non se la passavano benissimo, perché ricevevano spesso le “visite” degli imboscati che scendevano dai monti a fare rifornimento “gratis”, per la “causa” e poi le altre “visite”, dei crucchi, che ordinavano loro di fornire il cibo per la truppa. E’ logico pensare che in quella situazione precaria, una cucciolata non fosse proprio la benvenuta, per cui anche degli irriducibili come i Tomelli dovettero disfarsi di quasi tutti i cuccioli. Una volta, durante una delle periodiche discese notturne, un giovane di quelli scesi a caricare il cibo da portare su in montagna vide quei cuccioli e ne chiese uno, che, naturalmente i Tomelli gli donarono ben volentieri, per diminuire le bocche da sfamare. Giacomo, il giovane ribelle , detto il “biondino”, aveva una passione per la caccia ed una predilezione per quella razza canina, quindi portò con sé la cagnetta, la nascose presso alcuni conoscenti e riuscì, in modo più o meno rocambolesco, ad allevarla e ad averne cura. Dopo un paio d’anni, Daina, la cagnetta, era divenuta bravissima. Le starne, a valle erano abbondanti e l’incontro con le “brigate”, frequente. Una sortita con la Daina serviva a rifocillare la famiglia. Al rientro, cena e poi a nanna, salvo un paio di giorni a settimana durante i quali Giacomo si recava presso la sede del partito per ricevere gli ordini e gli eventuali “contrordini”. Lì aveva imparato chi erano gli infami, i profittatori e gli oppressori del “popppolo”. Lo avevano addirittura informato su quella che sarebbe potuta divenire la sua seconda patria, in caso di vittoria. Anche se lui non era convintissimo ed aveva, in fondo al cuore, ancora un debole per lo stemma Sabaudo cucito sulla bandiera tricolore. Il lavaggio del cervello era martellante e tutte le frasi ascoltate gli ronzavano in testa e riusciva a dimenticarle solo quando inseguiva la sua Daina. In fondo, anche Giuanin era così. Pure lui si era sorbito anni di adunate, comizi, frasi altisonanti. Il “nemiccco”, il “rapace d’oltralpe” (divenuto, in seguito, inspiegabilmente, “amiccco”…) , l’”Autarchia” ecc., erano stati , per anni termini d’uso quotidiano, poi, naufragati i destini d’Italia, proprio sul mare, si era pensato bene di riporre vessilli e gagliardetti nelle cassepanche ed affidarli al giudizio della storia, quella Vera, con la S maiuscola, non quella plasmata dai vincitori. Forse la differenza tra il “biondino” e Giuanin stava nel diverso atteggiamento che essi avevano nei confronti del mondo che li circondava. Il primo, nonostante l’imbottitura bisettimanale di “dottrina”, ma forte delle brutte esperienze di fine-guerra, cercava di seguire i dettami, anche se su alcuni temi rimaneva scettico; il secondo conosceva la dottrina del “ventennio” ed era profondamente deluso ed amareggiato per l’epilogo e per le tragedie che esso aveva procurato. Quella mattina Giuanin si era recato nel bosco di buon ora ed aveva fatto un ampio giro senza trovare nulla di significativo, tranne una grande varietà di funghi. Seguiva con attenzione la sua Birba , perché aveva l’idea che i selvatici fossero lì vicino e qualcosa nell’aria gli faceva pensare che sarebbe riuscito nell’intento di catturare anche il vecchio gallo di monte che inseguiva da giorni. Birba era una cagna incantata, simpatica nel nome e nobile nell’aspetto e negli ascendenti. Bellissima pointer bianco-nera, che scorrazzava maestosa ed a testa alta tra i rododendri e la sterpaglia come portata dal vento. Giuanin l’ ammirava estasiato, torcendo i baffoni all’insù e respirando grandi boccate di aria cristallina. Si spostò verso la valle per battere quella fiancata di macchia che dava sul lato del fiume e poi, magari proseguire tra i grani tagliati e le stoppie. Disceso per un pezzo e superato il fiume vide la Birba che risaliva arrancando e spariva, in alto dietro ad alcune macchie più fitte. Con calma si avviò verso quei luoghi e poi prese a cercare la cagna, dato che pensava fosse già ferma su qualche selvatico. Arrivato a poche decine di metri dalle macchie vide la cagna ferma con gli occhi scintillanti e lo sguardo fisso verso un punto. Si avvicinò con cautela, raggiunse uno spiazzo pulito e si appostò. Al via, la cagna “ruppe” e frullò un grosso gallo che piegò subito di lato con un fragore assordante. Giuanin lasciò andare una botta e corse a vedere l’esito della fucilata. Attese alcuni istanti ed ordinò alla cagna di riportare, ma quella , anziché fare come al solito, prese in bocca il gallo e si avviò per i viottoli, incurante dei richiami. Giuanin chiamò a gran voce, fischiò, ma per un bel pezzo la cagna non si fece viva. Poi arrivò ansimante, con un grosso fagotto in bocca e si sedette ai suoi piedi tutta contenta. L’alpino non riusciva a credere ai suoi occhi; era totalmente sbigottito. Prese la grossa lepre dalla bocca della cagna, la rigirò e notò i fori dei pallini dietro le orecchie. “Eppure sono convinto aver tirato ad un Forcello. Mi starò mica rimbambendo? Che razza d’imbroglio può essere questo. E tu, birba di una Birba; possibile che non dici nulla? Non ti volti al richiamo e poi, bella bella, mi riporti una lepre al posto del Gallo…Mica siamo al mercato, dove si cambia la merce che non ci va o dal prestigiatore. Questa poi, la devo raccontare giù a valle, anche se son certo che mi prenderanno per matto”. Intanto, poco dietro il crinale, il biondino cercava di capire come possa una lepre tramutarsi in un Forcello, cioè , infagottarsi, impiumarsi e cambiar forma. “Eppure ho sparato a terra, verso questa macchia di mirtilli. Quando ha sviottolato, sono certo che fosse una lepre. E’ meglio che non lo racconti alla “sezione” , altrimenti mi prendono per pazzo”. Frattanto la cagna aveva ripreso a correre ed ora “segnava” forte la traccia di un selvatico, fino a quando si bloccò in ferma. Giacomo si appressò e si preparò a sparare. Era quasi arrivato sulla sommità della collina e dall’altra parte c’era il canale del fiume. Partì un fagiano maschio stupendo, sul limite del tiro, che, preso in pieno dalla rosata, andò a cadere dall’altra parte della costa. Di lì a poco arrivò la cagna tutta trafelata, con una beccaccia in bocca. Nello stesso istante, il biondino, poco lontano, prese il fagiano tra le mani e, tremando, si sedette, fortemente preoccupato per la propria salute mentale. Dall’altra parte, la Penna nera, continuava a guardare la Birba e cercava di capire il perché di quella trasformazione, pensando che potesse essere avvenuta durante la caduta… “Eppure era un fagiano. Ne sono sicurissimo. Se non fossi certo di aver bevuto, penserei di esser brillo”. Diceva tra sé e sé, preoccupato, il “vecio” Giuanin. Arrivato sul crinale vide nuovamente la Birba puntata e si appressò curioso di sapere se quella magia poteva ripetersi. La cagnetta si arrestò di scatto e di lì a poco frullarono tre starne. Nel mentre sopraggiungevano alcuni colombacci; non curandosi di essi, Giuanin prese la mira e tirò ad una delle starne . Con sua grande sorpresa si accorse che contemporaneamente uno dei colombacci cadeva giù, lì vicino, oltre il crinale e di lì a poco arrivava la Brina a riportarlo. Decise di andare a sincerarsi su quell’episodio e nel frattempo legò la cagna. Percorsa poca strada si sentì chiamare. “ Voi” disse il biondino “ che cosa fate con la mia cagna al guinzaglio? E’ forse questa, l’usanza dei cacciatori di queste parti?”. “Quel gallo l’ho scovato io” disse Giuanin”. “E quella lepre che portate l’ha scovata la mia cagna“, rispose il biondino. “ Per qual motivo avete scambiato il vostro selvatico con il mio? E che volete dalla mia cagna, se la vostra vi scorrazza tranquillamente a fianco?”, disse l’alpino ; e il ragazzo di rimando: ” Guardate che io salgo da valle e da parecchia strada avevo la cagna che tracciava questa lepre, tant’è che l’ho sparata sotto ferma; quindi vi prego di non insistere con le vostre pretese. Inoltre la cagna che mi segue è venuta dall’altra parte della costa, somiglia alla mia , ma ha una macchia bianca in fronte, particolare non presente nella mia che ora voi tenete scorrettamente a guinzaglio” . “Allora voi avete preso anche il mio fagiano e la mia starna”, disse la Penna Nera; e la penna Rossa , rispose : “ E voi per vendicarvi avete preso pure la mia cagna”. Giuanin si sentì offeso nell’orgoglio e si avvicinò al giovane togliendosi il cappello, pronto a redarguirlo a dovere. L’altro si fece avanti impettito e quando furono a pochi passi rimasero sbigottiti, a bocca aperta come due vitelli in cerca di latte. ” Ma, voi, lei, tu. Non è possibile” disse il vecio. E l’altro, sbigottito: “Tenente colonnello…mah, ma, non si era rimasti dell’accordo che io e Voi non ci si doveva più incontrare?”. Giuanin guardò il giovane e disse : ”Come sei cresciuto, biondino. Sei diventato un uomo. Quasi non ti riconoscevo”. Il biondino lo guardò, buttò il fucile a terra e corse ad abbracciare la vecchia Penna nera. Piansero e ricordarono quei giorni. Giuanin disse: ”Sono contento di averti fatto scappare, mi ricordavi mio figlio e non mi sarei mai perdonato di farti del male”. E, il biondino: ”Io invece vi ho fatto scappare perché mi ricordavate mio padre e, ho pensato molto a lui ed a voi in questi anni. Lui sarebbe stato fiero del mio gesto, anche se io all’inizio ero poco convinto”. Il vecio lo guardò col viso sereno e disse: “La guerra non è riuscita a distruggere i nostri pensieri buoni e questo mi sembra un bel risultato. Tanti morti, tante vite, non sono finite invano, ma servono perché quelli come me e come te costruiscano una Patria migliore”. Dietro ai due si stagliava alta la cima della montagna ed il silenzio faceva da contorno alle loro voci ovattate. Parlarono, discussero, raccontarono fatti ed episodi, poi si fermarono a guardare i cani che scorazzavano felici e rimasero in silenzio pensando alle vicende passate, agli orrori vissuti, al loro coraggio di stare da una parte o dall’altra, entrambi, per la scelta che ritenevano migliore per se stessi e per gli altri ed al nuovo futuro che si prospettava davanti a loro, sicuri di affrontarlo, con coraggio, per costruirlo insieme.
Autore: Luca Davide Enna