La corteccia consumata ed aggrinzita dal tempo, i nodi lucidi ed i rami protesi verso il cielo gli davano un’immagine simile a quella della mano di un naufrago che chiede disperatamente aiuto, un aiuto che nessuno può prestargli, dal momento che quel naufrago era un vegetale , e quindi , muto, ed il mare una distesa di macchia mediterranea. L’albero cavo era lì, piantato da secoli, testimone immemore di una moltitudine di vicende che avevano creato non pochi affanni alle generazioni che lo conobbero e sciolsero i fiocchi delle loro vite al riparo della sua chioma. Rifugio per gli armenti e gli animali selvatici, ristoro per tordi, merli, colombacci e quant’altro, nascondiglio, più o meno segreto, per il ricovero di traffici non sempre leciti, l’albero di olivastro della tanca dei Podda ne avrebbe avuto da raccontare, se solo il Padreterno l’ avesse fornito di lingua e polmoni, anziché chiedergli quotidianamente la produzione di anidride carbonica ed ossigeno… Cento anni prima ed agli inizi del novecento, parecchi banditi lo avevano preso come punto di riferimento e non solo loro, ma anche pastori, viandanti, missionari e tutti coloro che passavano da quelle parti e stanchi, disperati o circospetti, si aggiravano all’ombra del suo fogliame. All’interno, pro tempore, vi si celavano veri e propri tesori, di genere alimentare, commerciale o altro. Forniva riparo, rifugio e sollievo, con quella discrezione che solo un albero può dare, perché poco loquace, per natura. Pizzente si recò al solito posto, tra le macchie scure di lentischio, la tirìa (ginestra spinosa) ed il mirto reso scuro dalle abbondanti piogge. Camminava sospettoso, nonostante conoscesse quella zona come le sue tasche. Arrivato dietro la roccia del fiume, a circa cinquanta metri dall’albero, dove poteva avere una visuale sicura, si fermò e sbirciò di sottecchi, per tranquillità. Quasi non gli prese un colpo. Due individui con grandi occhiali da mosca, stavano alla base dell’albero cavo e confabulavano animatamente. Poi, uno dei due infilò una mano in alto, in un piccolo incavo e ne trasse due pacchi scuri. Sciolto l’involucro del primo, saltarono fuori due buste con un contenuto biancastro che vennero subito intascate, da uno e dall’altro. In seguito, slegato il secondo, si vide con chiarezza che erano soldi, perché i due si misero a contare e diviso in due il “malloppo” si voltarono di spalle e si allontanarono. Pizzente era impietrito, fermo, lì dietro la roccia, grondando sudore nonostante il freddo pungente. Mille idee gli erano frullate per la mente ma certo quei due non erano cacciatori di frodo, come lui. Anzi, li aveva già visti e il ricordo gli affiorava alla mente come un fumo rosso porpora. Avrebbe voluto agire , ma qualcosa lo trattenne, un rumore sospetto , che poi risultò essere quello prodotto da un vitello al pascolo, ma sulle prime lo fece tremare per il timore di avere qualcun altro nei pressi. Era abituato a quei luoghi e lì conduceva la vita, senz’agi né lussi, ma riusciva a barcamenarsi per tirare avanti la famiglia. Aveva già le comande pronte: dieci pernici per la cena dell’avvocato, due cosce di cinghiale per il dottore, qualche chilo di polpa per il vicesindaco, un cosciotto anteriore per la moglie del fornaio, l’altro per il calzolaio e un pò di polpa, questa in regalo, al povero e smunto parroco che si occupava di quel gregge di anime. Per lui bracconaggio era sinonimo di ricerca del cibo e non vi è dubbio che fosse così. Rispettava gli animali e le stagioni, prelevando solo ciò che gli occorreva e eliminando trappole e lacci di astuti servi-pastori o contadini ai quali un lavoro non bastava , ma volevano “arrotondare”… Certo , era difficile tirare avanti, ma la sua bravura e l’arte nel mestiere erano formidabili, per cui raramente tornava a mani vuote. A suo modo , si riteneva una persona onesta e poi non aveva troppa paura delle guardie che, in effetti lo lasciavano in pace , perché lo conoscevano da sempre e sapevano che non era lui a danneggiare l’equilibrio faunistico, ma alcuni di quei balordi arrivati dal capoluogo senza conoscere il posto e pestando a caso nell’intento di scovare qualcosa. Più volte aveva visto quei signori vestiti bene, con abiti costosi e cani di razza al seguito. Ogni tanto ne accompagnava alcuni indicando loro alcuni luoghi dove catturare qualche preda e con certi aveva fatto pure amicizia, per cui al loro arrivo lo riempivano di pacchi regalo per lui e la famiglia, conoscendo le sue necessità. In particolare uno, Baingio, viveva in città, in una casa di lusso con le specchiere nel bagno , il salotto pieno di luci e di quadri firmati e lo studio zeppo di libroni grossi così. Baingio arrivava dalla campagna, come lui, solo che aveva avuto la fortuna di studiare ed era arrivato ad un’ottima posizione sociale. La ricchezza però non gli aveva portato bene ed uno dei suoi quattro figli aveva preso una brutta strada. Provarono di tutto, lo pedinarono, lo pregarono, arrivarono a picchiarlo, ma non ci fu niente da fare. Un giorno, una telefonata dalla centrale informò il poveruomo che il figlio prediletto era stato trovato esanime dopo una notte fuori casa. Dalle indagini risultò che il ragazzo aveva il vizio del gioco ed era entrato in contatto con un giro di pessima gente ; aveva contratto debiti e, per vendetta , due sicari lo avevano accoltellato per strada. Il povero padre non sapeva darsi pace e ogni volta che si ritrovava con il suo carissimo amico e gli tornava alla mente l’accaduto si fermava ed iniziava a piangere disperatamente. Pizzente provava a consolarlo, ma l’impresa era troppo difficile. Era passato del tempo e lui aveva raccolto una mole d’informazioni sulle frequentazioni del ragazzo scomparso, per cui sapeva con precisione quasi matematica chi era stato a commettere il delitto e come aveva agito. Non era tranquillo per ciò che sapeva e cercava di dimenticare l’episodio facendo le cose a lui congeniali, ma, quell’incontro vicino all’albero cavo gli aveva riaperto una ferita. Non poteva dirlo all’amico, perché sapeva che si sarebbe compromesso mettendo in gioco la sua onorabilità e questo segreto lo logorava ogni giorno di più. Quella visione fu lacerante, come una folata di ghiaccio su un cavallo sudato dopo una folle corsa. Cercava di radunare i pensieri e, spaventato dal rumore udito, si rannicchiò sotto un cespuglio, facendosi sempre più piccolo. Quando vide il vitello capì di aver perso un’occasione. Si rialzò lentamente, ma i due individui erano già scomparsi nell’ombra delle piante frondose. Andò all’albero cavo, infilò la mano nella fessura, in alto e non trovò nulla. Picchiò un pugno sul tronco, per la rabbia, si ammaccò la mano e dovette fasciarla per giorni. La notte montava di vedetta e controllava l’eventuale andirivieni al vecchio albero. Per parecchio tempo non si vide nessuno, poi, una sera, due tizi arrivarono deposero qualcosa nel tronco e si allontanarono, di corsa. Come un gatto selvatico, dopo averli fatti allontanare, si avvicinò al tronco e frugò dentro.
C’erano due pacchi; uno pieno di una strana polvere bianca e l’altro zeppo di soldi. Rimase terrorizzato. Quelle canaglie erano due trafficanti, oltre a fare il doppio lavoro da sicari. Ritornò altre volte all’albero cavo e non trovò più qualcuno, così, in un periodo di ristrettezze, decise di recuperare lui il pacco dei soldi. Si recò all’albero, ma proprio quando mancavano poche decine di metri dal luogo si accorse che c’era qualcuno. I due individui erano lì che confabulavano animatamente, finché ci fu una colluttazione, si udirono due spari quasi all’unisono e poi cadde il silenzio. Con il sudore che grondava, nonostante il freschetto della sera, Pizzente si levò pian piano e si sporse oltre i ciuffi di un arbusto, fino a che non vide la scena. I due delinquenti giacevano sul terreno, secchi come il sughero, fulminati dalle rispettive schioppettate e vicino a loro due grossi pacchi stavano in bella vista. Con cautela si avvicinò, osservò tutto, prelevò il pacco con i soldi da terra e poi sottrasse i due pacchi dal cavo dell’albero. Ritirò anche il secondo pacco con il denaro e buttò quello con la polvere, a fianco dei due criminali. Una telefonata anonima avvertì le guardie che c’erano due cadaveri in campagna e quando i militari furono sul posto e trovarono i due pacchi, vicino a quei figuri, pensarono subito che i due tizi si fossero uccisi a vicenda per contrasti sulla divisione della merce. Pizzente lasciò perdere l’albero cavo e da quella volta smise di andare in campagna di notte, ma il segreto lo tormentava. Una mattina, mentre lui e Baingio riposavano seduti su una roccia, dopo una faticosa scarpinata, guardò l’amico negli occhi e gli raccontò tutto. Quello rimase gelato. Incominciò a piangere e pensò all’inutile fine di quei tipi ed al destino infame che aveva colto lui e il suo figliolo. Poi rifletté sull’accaduto e pensò ai soldi ed a Pizzente e convenne almeno che nonostante un male così orrendo era scaturito un bene, per una famiglia in ristrettezze come quella dell’amico. “Io faccio il mestiere che faccio”, disse all’amico, asciugandosi gli occhi, “ma, la mia coscienza mi dice che hai fatto bene a tenere quei soldi. Erano soldi maledetti e lasciarli a loro non sarebbe servito a nulla, mentre permetteranno a te ed ai tuoi di vivere una vita decorosa, e, in fin dei conti , così non dovremmo più andare a caccia con la paura che qualcuno ti cerchi per le tue scorribande notturne…”. Pizzente lo guardò con un sorriso che andava da un orecchio all’altro e gli occhi lucidi nel vedere la gioia riflessa negli occhi dell’amico e disse: ”Caro avvocato, hai ragione, d’altronde non ho più l’età per portare a spalla un cinghiale e correre con le guardie appresso. Preferisco fare tutto in regola e cacciare alla luce del giorno. Ma, adesso, cosa vogliamo fare? Ci fermiamo ancora a trastullarci come due smidollati cittadini o vogliamo cercare quel volo di pernici che ho <segnalato> la scorsa settimana?”. E si rialzarono, più leggeri, ma con il cuore gonfio, pensando a quelle disgrazie e guardando avanti, verso l’orizzonte, dove il confine tra le stoppie e la macchia <segnalava> la frontiera del loro immediato futuro.
Autore: Luca Davide Enna