Underberg

Alcune sere fa, dopo aver presentato in libreria l’ultimo romanzo di uno scrittore amico, giunti al momento degli interventi del pubblico – interventi, peraltro, da me sollecitati–  una signora non più giovanissima mi interpellò con una domanda che voleva essere provocatoria, ma della quale fui felice perché mi consentì di  aprire un dibattito su un tema del tutto estraneo a quella particolare occasione. Senza alzarsi dal suo posto, la signora, che mostrava ancora le tracce di una luminosa bellezza, mi chiese, senza tanti giri di parole: “Ma come fa una persona come lei, un esteta, uno scrittore che si dice amante della natura, ad uccidere quei poveri cinghiali?” Risposi, con una punta di volontario sarcasmo: “Sa, signora, vivi non mi riesce ancora di mangiarli!” Ci fu un attimo di gelo. Poi infierii, aprendo la bocca: “Vede signora? Questi sono i canini. E rappresentano la prova più palese che sono anch’io, e sicuramente anche lei e tutti i presenti, un predatore!”
Si parla sempre più spesso di etica della caccia. Sembra che  le due parole “etica” e “caccia” siano in stridente contraddizione fra di loro, per l’idea,  insita nella parola “caccia”, dell’uccisione di una creatura. Può la caccia essere “etica”?  Per prima cosa occorre ridefinire il significato di questa parola, che tante passioni suscita.
Che cos’ è la caccia? E’ ancora uno sport, un hobby, un uso del tempo libero? E’ una risposta culturale all’istinto di aggressività? E’ l’uso razionale di una risorsa, economica e alimentare, non in contrasto con il mantenimento e  lo stato di salute   di popolazioni animali?  E’ gestione e conservazione della fauna selvatica? E’ un lavoro che si svolge, nell’interesse di tutti, per il mantenimento delle strutture sociali di determinate specie in armoniosa relazione con le altre specie selvatiche, con il territorio e la produzione agricola e forestale? E’ qualcosa che ci ricollega con i nostri istinti più ancestrali ai quali far risalire ogni tappa del progresso umano, dalla costruzione del linguaggio, alla creazione delle comunità sociali, all’identificazione dei ruoli e delle gerarchie all’interno del gruppo? E’ un modo di sentirsi partecipe degli eventi naturali, anche dei più drammatici? Rappresenta quindi la condizione umana? Può  essere anche una metafora poetica della vita?
In realtà la caccia è tutte queste cose insieme. Ognuno di noi può , in diversa misura, scegliersi le risposte più vicine al suo modo di sentire.
E’ chiaro che alcune di queste motivazioni vanno utilizzate, con opportuni interventi pubblicistici, per modernizzare gli atteggiamenti del mondo venatorio, ma anche per rendere più accettabile all’esterno il senso di questa nostra amata, ma anche criticatissima attività, che viene percepita spesso come un gratuito atto  di violenza sugli animali.
Negli strati più responsabili del mondo degli ambientalisti  si stanno superando molte delle incomprensioni di un tempo, alla  luce anche dei grandi cambiamenti che si sono verificati in questi ultimi anni e che hanno visto, ormai in quasi tutta Italia, i cacciatori svolgere per conto delle amministrazioni provinciali un ruolo insostituibile di controllo sulle specie di ungulati, oramai  così diffusi sul territorio, da costituire un serio problema per l’ambiente, le colture, ma anche per le altre specie meno versatili.  Stanno cadendo, proprio per il nuovo corso dell’attività venatoria che viene intesa sempre di più come gestione della fauna selvatica, le incomprensioni che nel passato hanno contrapposto ambientalisti, cacciatori e agricoltori. Ci sono continue e frequenti scaramucce, ma spesso solo  di facciata. E’ invece impossibile – e lo sarà sempre - ogni contatto con il movimento degli  animalisti che, al suo interno, vede crescere sempre di più le frange estreme, oltranziste e spesso anche violente. L’animalismo è una sorta di disumana religione moderna, praticata da chi vive in città e da tempo ormai ha perso ogni rapporto con  i fatti naturali. Si basa su un’immagine falsa e idilliaca della natura, dove invece tutto è conflitto cruento, dove la vita nasce dalla morte, continuamente, in un perpetuo rinnovarsi.
A parte ogni altra considerazione, la caccia è etica quando è naturale, quando non è spreco, insensato consumo, gratuita crudeltà.
Interessante è la posizione delle diverse religioni nei confronti della caccia. Nessuna delle grandi confessioni la proibisce. a condizione che venga praticata in modo naturale. Il famoso calciatore italiano Baggio è un fervente buddista e al tempo stesso un appassionato cacciatore. Il monaco zen Gigi  Mario,  che ha la responsabilità di un monastero buddista nei pressi di Orvieto, tempo fa mi chiese se fosse possibile  abbattere un po’ di quei cinghiali che gli devastavano l’orto.
Maggiori sono invece le distanze con l’animalismo. Civiltà Cattolica, l’autorevole rivista dei Gesuiti, ha dichiarato tempo fa guerra a queste frange estreme dell’utopia verde sottolineando i rischi di una filosofia che per innalzare i diritti degli animali riduce quelli degli uomini.  Ironizzando sui pretesi diritti degli animali sostenuti dal movimento, l’editorialista di Civiltà Cattolica si chiedeva: “Per difendere la vita degli animali anche dagli altri animali, dovremmo tutta la nostra vita separare i gatti dai topi? E come si giustifica il fatto che si uccidano le pecore per alimentare Fratello Lupo?”
Torniamo agli ambientalisti o anche a tutti coloro che, pur non essendo impegnati in un’attività di “volontariato critico”,  sono semplicemente infastiditi dalla caccia, perché ormai influenzati da almeno venti anni di propaganda contraria, o anche soltanto a causa di tutte le implicazioni evocative della violenza presenti anche nella migliore e più “etica” attività venatoria.
Abitualmente noi diamo  risposte di tipo biologico ed economico:
  1.  il cacciatore svolge le funzioni dei grandi predatori ormai scomparsi;
  2.  il cacciatore ristabilisce l’ordine nella struttura sociale delle popolazioni;
  3.  il cacciatore lavora per tutto l’anno per contribuire a mantenere e migliorare l’ambiente e per questo è anche disposto a spendere di tasca sua (vedi quanto ha fatto il CIC in Senegal dove ha ricreato 52 mila ettari di zone umide);
  4. dove la caccia è stata proibita sono esplose epidemie (come è avvenuto nei massimi parchi italiani); altrove alcune  specie si sono moltiplicate a danno di altre meno versatili e si sono rivelate un vero flagello per le colture. Nel cantone di Ginevra , dove la caccia è stata interdetta da un referendum popolare, vengono spesso impiegati i militari per limitare i capi in sovrannumero;
  5. la fauna selvatica è un bene della terra, come il grano, o meglio ancora, come un gregge: se ho dieci ettari di prato e dieci pecore, dovrò intervenire per tempo per raccogliere l’incremento annuo, altrimenti in capo a due o tre anni morranno tutte.
Di  fronte a queste argomentazioni,  un interlocutore ragionevole riconoscerà magari che la caccia è utile, che a volte è necessaria, sempre che tutti i cacciatori si comportino bene. Ma la reazione degli “altri” spesso è riassunta in una sola frase: “Sì, ma voi uccidete, voi vi divertite a uccidere.”  Questo è il vero problema etico. E’ vero? E quali risposte dare?
La prima: ci sono anche le guerra giuste, le guerre difensive. Ora la caccia è come la guerra: spesso è necessaria, indipendentemente dal fatto che un militare di carriera possa trovarvi le proprie soddisfazioni. Se il tuo Paese è minacciato, che cosa fai? Scappi, passi dalla parte del nemico, professi l’obiezione di coscienza? O più onestamente rischi la tua vita per la salvezza tua e dei tuoi compatrioti, per difendere i tuoi valori, il tuo stile di vita, la tua cultura, la tua religione, anche il tuo benessere? Oppure: se devi farti tagliare un braccio, preferisci sottoporti al bisturi di un chirurgo che svolga il suo lavoro con soddisfazione, con una sorta di professionale piacere, o da chi non ama quel suo lavoro sanguinario? E’ chiaro, infatti,  che la caccia, pur rivestendo una funzione biologica, economica e anche sociale, deve essere praticata da chi intende rispondere a un’intima e arcaica pulsione, che possiamo chiamare “piacere”, anche se l’atto implica la  morte di creature viventi.
Ma ancora una volta, l’etica può trovare conforto nella biologia: in natura, ogni specie vivente si nutre a danno di altre specie viventi. La volpe uccide, ed è naturale.  Diecimila anni fa l’uomo  ha imparato ad allevare quegli animali che cacciava e a seminare quei frutti che raccoglieva, per potersene cibare più facilmente, cosa che continua a fare anche oggi senza sollevare eccessive obiezioni. Anche se allevati o coltivati per ragioni alimentari, polli, tacchini, fagioli e melanzane, sono tutte creature viventi  ( e non è detto che i vegetali non abbiano una loro sensibilità, anche se assai rudimentale). L’uomo, come qualsiasi altro essere presente su questa terra , si ciba di cose vive, non di minerali. La caccia (come la macellazione) si serve di un atto cruento per trasformare una proteina in energia. In questo non c’è niente di scandaloso, perché questo è naturale. Tutto dipende da come  si giunge ad un abbattimento, ad un’uccisione. E per questo il cacciatore si è dato delle regole per non far soffrire l’animale, e per non far danno alla specie. E in più si è inventato nei secoli una serie di rituali che danno nobiltà alla caccia, come le cerimonie che si fanno sia per onorare l’animale ucciso sia per esorcizzare il senso di colpa. E l’arte (sotto forma di musica, pittura, letteratura) è da sempre una fedele testimone dell’atto del cacciare.
Come si può vedere,  il discorso porta molto lontano e difficilmente può essere racchiuso nell’angusta griglia di una formula.

Bruno Modugno