Le memorie di Adelio Ponce de Leon - Parte Seconda

Dalla culla ai 90: tutta caccia

La fanciullezza

Mitraglietta, al secolo Adelio Ponce De Leon, continua con la narrazione delle varie fasi della propria vita, fra una punizione inflitta dal padre per avere, di nascosto, sottratto il flobert, e gli esperimenti armigeri/balistici effettuati con la complicità del fratello Eustachio, compresi i relativi incidenti di percorso...

di Adelio Ponce De Leon

Fin da fanciullo maneggiavo le armi accanto a mio padre, quando le toglieva dalla rastrelliera posta nel salone per spolverarle e pulirle, specialmente all’interno delle canne. Ricordo la sua quasi religiosità mentre accarezzava lo Scott che aveva comperato a Londra in Piccadilly Street, o il Tire Fire acquistato a Milano da Pino Buttafava, titolare della più prestigiosa armeria milanese, famoso cacciatore e tiratore potente di pedana, che aveva vinto due volte il Gran Prix di Montecarlo al piccione, che a quai tempi era il campionato del mondo di tiro al piccione. Poi il Torcione pesante dalle canne lunghissime, che colpiva selvatici a distanze quasi impossibili, poi il Browning a cinque colpi a mollone, gioiello di pochissimi, primo automatico dell’epoca, infine le doppiette: quella strozzata e quella a canne cilindriche e il calibro 16 e poi il 28, con il calcio svuotato inferiormente e solo con una forma idonea all’imbracciatura, che si piegava in due tanto da poter essere alloggiato nella cacciatora quando si andava a caccia di selvaggina minuta.
 
Non ricordo di avere imparato a sparare
Nella nebulosità delle mie reminiscenze infantili rimangono i fuciletti regali di Natale e mi pare di essere stato tiratore fin dalla nascita. Sono invece ben impresse nella mia mente le botte di papà quando si accorgeva che era sparito dai nascondigli più impensati l’otturatore del flobert calibro 6. Spendevo tutti i miei soldi delle paghette settimanali nell’acquisto di cartucce a palla e a pallini che la Soresina, titolare della drogheria con licenza di vendita di polveri e cartucce, mi vendeva di nascosto dai genitori e dalle autorità. Quando non arrivavano le botte di papà c’erano quelle di nonna Adele e di mamma Maria, le quali si accorgevano che il flobert era in attività perche le forbici di casa avevano le punte rotonde e smussate. Questo perché l’estrattore, da noi costretto ad un ritmo di estrazione continuo, si era smussato e non rimuoveva più il bossolo. Bisognava far leva con la punta delle forbici tra l’imboccatura inferiore della canna ed il fondello del bossolo. L’estrazione forzata aveva smussato anche il lato inferiore della canna e ben presto, allo sparo, le polveri combuste uscivano dietro l’otturatore, annerendo e bruciacchiando lo sparatore. Anche Eustachio, mio fratello maggiore, più vecchio di tre anni e che mi precedeva (ma io lo seguivo a ruota...) in ogni azione di caccia e/o tiro al bersaglio illegali, aveva la mania delle armi. Intorno al 1920 il Paese era pieno di bossoli e proiettili che i soldati avevano portato a casa a ricordo del fronte. Predominavano quelli del fucile 1891.
 
Costruivamo rudimentali pistole...
... modellando un pezzo di legno duro a foggia di calcio di pistola sul quale incastravamo un bossolo vuoto (che costituiva canna e camera di scoppio) del ‘91 mediante un filo di ferro su un’incanalatura superiore a forma di culla. Estratta dal bossolo la capsula sparata la pistola era fatta. Formato quindi un incavo alla base del foro generato dalla rimozione della capsula, vi si schiacciava un poco di polvere, si immettevano, senza borra, alcuni pallini nel bossolo e l’arma era pronta per lo sparo. Con uno zolfanello lo sparatore accendeva la polvere pressata contro il foro del proiettile ed il colpo partiva. A queste esperienze balistiche è legato un incidente. Caricata la pistola Eustachio ed io, per conoscere la forza di penetrazione dei pallini, avevamo preso un’asticella di legno compensato di mezzo metro quadrato. Io reggevo l’asticella con due mani di fronte alla mia faccia a protezione del volto; Eustachio doveva colpire l’asticella stessa in centro; aveva già acceso quattro o cinque volte la miccia costituita di polvere, ma questa bruciava senza che lo scoppio avvenisse. Stanco di tenere l’assicella alzata a protezione del viso, ma più che altro curioso di sapere perché il colpo non partisse, sporsi la resta dalla protezione. In quell’attimo avvenne il botto, seguito da una nube di polvere e fumo nero. Il bossolo del ’91, che in testa si restringeva, era scoppiato, mentre un parte dei pallini, per fortuna con poca forza di penetrazione e senza colpire gli occhi, mi arrivava sul viso assieme alla polvere trasformandomi in un negro.  Molto spavento, numerose bruciature e piccole ferite, ma per fortuna nulla di grave.

Teatro delle nostre imprese...
... giovanili erano il giardino, l’orto e il pollaio della casa, sita nel centro del paese con facciata sulla piazza. Le antiche porte di legno del muro di cinta del giardino, quasi tutti i muri, oltre a vecchi tronchi di faggi e noci, ancora oggi portano i segni delle pallottole del 6 e del 9. Qualsiasi cosa rappresentava per noi un bersaglio. I passeri, tanto numerosi ovunque, erano rarissimi nel raggio di cinquanta metri dal nostro raggio d’azione. Per anni estinguemmo le lucertole. Contro i gatti era bandita la “guerra santa” fino al giorno in cui avevamo trovato sbranato il cardinale dal ciuffo rosso, sultano assoluto nella grande voliera piena di uccelli di ogni specie. “Il cardinale no, non me lo dovevano uccidere!” esclamò nostro padre. L’uccello, allora a noi sconosciuto, lo aveva portato da Miami mio padre, quando si era recato nei Caraibi a visionare i terreni e le case ereditati dall’antenato Don Juan Ponce de Leon, che nel 1521 aveva scoperto, nel giorno di Pasqua, la nuova terra chiamandola Pasqua Florida. Altri terreni da visionare portarono mio padre anche a Portorico, ove l’antenato era stato il primo governatore Spagnolo e ad Haiti, l’antica Hispaniola, dove erano vissuti gli ultimi figli del conquistador. Da allora anche i gatti giravano ben alla larga dal nostro campo d’azione.

Un tiro di carabina fece scalpore
In giardino, assieme ad Eustachio e Rico, il figlio del giardiniere, gareggiavamo a centrare una scatola di latta appoggiata sopra una pietra. Spara Rico, la scatola vola via e nello stesso istante si ode un urlo di donna provenire dalla casa. Accorriamo. Alla sorella di Rico, Jole, fiorente bellezza nota per la sua avvenenza, che si tratteneva in casa ad uscio aperto in sollazzevole compagnia con il fidanzato, un tale Brivio, si era strappata la camicetta mettendo a nudo il seno. Era successo che la pallottola, rimbalzata su una pietra, era penetrata, fortunatamente solo per un centimetro, nella mammella sinistra, sotto il capezzolo, rigandole di sangue il petto. Fortuna volle che a sparare fosse stato Rico, suo fratello. La deliziosa visione del giovane seno della Jole, nudo fino all’arrivo del dottore, non fu sufficiente ad attenuare lo spavento e la preoccupazione per le conseguenze che vennero introdotte: non meno di tre mesi di abbandono di ogni attività sparatoria.