Memorie di un cacciatore
Dalla culla ai 90: tutta caccia
Il fascino del paese
di Adelio Ponce De Leon
Agli inizi degli anni Trenta attendevo con impazienza il giorno in cui avrei potuto cacciare con il beneplacito della licenza di caccia. Frequentavo il primo corso del liceo classico di Varese quando, il 26 gennaio del 1931, compii 16 anni. Era giovedì e a mezzogiorno, a tavola, sotto il piatto trovai la licenza, rilasciatami con il consenso paterno. I miei occhi, incontrandosi con quelli di papà, luccicavano come i suoi. Papà viveva la commozione di tramandare a me il culto della caccia venerato da secoli in famiglia. Promisi di non essere indegno di tanta tradizione.
Abitavamo a Varese. Appena riuscii a scattare dalla sedia inforcai la bicicletta da corsa e via di volata nonostante il gelo, giù per la discesa del Sasso fino al paese, nella casa avita, ove arrivai assiderato. Ma dentro ero caldo e pieno di bramosia cacciatoresca. Nonna Adele, custode della casa, rabbrividì vedendomi staccare dalla rastrelliera il pesante automatico, appesantirmi di cartucce e calzare, non avendo gli stivali, gli scarponi da montagna.
Il primo beccaccino
A quei tempi, di gennaio, la caccia era permessa ovunque. Ora mi sentivo padrone delle pianure, dei boschi, della palude. Miei erano i canneti rinsecchiti dal gelo invernale, le acque gelide e immote, i selvatici del falasco. La palude era quasi tutta gelata e, nonostante procedessi a passi leggeri, gli scarponi scricchiolavano sui ghiacci tra i ciuffi. Ma ero nel laghetto di Bardello ove mio padre diceva che non lo si batteva senza sparare almeno una fucilata.
Ogni tanto la patina di ghiaccio si spezzava. Subito piedi e gambe divenivano violacei, ma l’eccitazione e il movimento mi davano calore. Procedevo a zig zag attento e silenzioso con il fucile imbracciato pronto al tiro. Qua e là fra la vegetazione palustre predominava il muschio fra spiazzi accarezzati dal tenue sole. Solamente nei luoghi privi di ghiaccio ove predominava la torba, avrei potuto trovare il re dell’acquitrino. Sapevo che pochi beccaccini indugiavano ancora nonostante il gelo nella palude, i così detti pasturoni che non erano migrati verso i Paesi caldi. Erano già stati sparati nella stagione autunnale e perciò erano smaliziatissimi.
Uscendo da un canneto mi affaccio alla radura costeggiante le acque del piccolo lago. Non è ancora spenta l’eco di un improvviso gnech che tre o quattro beccaccini volano già alti verso il cielo e il boato serrato del mio automatico scuote il silenzio della palude. Le saette alate fuggono nel cielo sempre più alte, mentre impreco contro la mia precipitazione. Ma accade l’imprevisto. Un beccaccino rallenta, sbatte le ali e poi cade in picchiata come uno straccio accompagnato dal mio grido di gioia.
Solamente chi ha cacciato in palude senza cane sa che cosa vuol dire ricercare un selvatico abbattuto a più di cento metri. A occhi fissi, senza un battito di palpebra, percorro a balzi la distanza fissando un cespuglietto più alto, poi per terra, nel punto presunto di caduta, metto un cappello sul cespuglietto memorizzato. Man mano che il tempo passava mi veniva da piangere. Quasi annottava quando lo intravidi stecchito, seminascosto dalle erbe.
Padrone del mondo e del primo beccaccino della mia vita non mi accorsi delle sferzate di un forte vento di tramontana che accompagnava le mie intirizzite pedalate verso il paese.
Prima di andare a dormire, riempii la pagina “uno” del mio diario di caccia, che ho tenuto aggiornato fino a oggi.
A febbraio
A febbraio, spesso mi levavo dal letto due ore prima dell’alba, percorrendo con temperature glaciali oltre dieci chilometri per arrivare sulle rive del lago, ove mi aspettava il Giol per le battute con la spingarda. Niei periodi di gran passo cacciavo anche nei giorni di scuola, attento a rientrare per essere puntuale alle lezioni delle nove.
Ricorderò sempre il primo colpo di spingarda. Alle prime luci dell’alba, tre marzaiole nuotavano in mezzo agli “stelloni”. Lino mi dava le istruzioni mentre palettava: “attento a non uccidere i richiami. Aspetta un momento che si mettano da parte. Mira un poco in alto. Attenzione. Spara”. Il boato mi fece chiudere gli occhi. Quando li aprii non vidi che una nube di polvere dinnanzi al barchetto. Poi, a poco a poco, distinsi sull’acqua le tre marzaiole pancia all’aria in mezzo ai richiami miracolosamente incolumi.
La caccia con la spingarda era sicuramente di carniere, ma non la si poteva dire di comodità. Infiniti sono i preparativi: dal barchino al cannone, dalla scelta delle cariche al posizionamento delle anatre con corde e mattoni, dall’attrezzatura del cacciatore solo e con il compagno. I cacciatori di pianura e di montagna hanno i cani che si meritano, il cacciatore di spingarda aveva i richiami e le anitre che si meritava.
Quando l’Angiol, l’anziano spingardista del lago, mi iniziò alle battute, per me le anatre grosse erano germani, le piccole tutte garganelli. Più tardi distinsi al volo e al canto germani, fischioni, codoni, alzavole, marzaiole, morette e tutta la serie delle meno conosciute.
Il modo di disporre i richiami vivi e gli stampi aveva grande importanza perché risultassero efficaci zimbelli. Sarebbe stata nulla una femmina che aveva un compagno vicino, in quanto il maschio libero avrebbe indigiato su una femmina legata. La femmina con il maschio vicino non canta, ma emette un cigolìo udibile dai selvatici solo al mattino, quando è ancora buio.
Ora la caccia con la spingarda è stata proibita e gli insegnamenti sopradescritti mi sono stati utili nelle botti delle varie valli venete e soprattutto a Karlovac, in Croazia, quando ebbi la concessione per mettere venti botti in sei vasti laghi artificiali.
La primavera
Venne anche la primavera. Le lodole presero a salire in alto nel cielo, riempiendo dei loro trilli la pianura; poi arrivarono i colombacci, i tordi e i beccaccini.
Tutto quello che avevo sognato andava avverandosi e potevo deambulare solo con il fucile nel mondo della natura dimentico di ogni altra cosa.
Mezza giornata di pioggerellina fitta fitta era sufficiente a risvegliare la pianura e a ridare vigore a tutto. Rinverdivano le spianate, le campagne e i boschi; le prime punte di cacceggiole fiorivano. Risuonavano le mille voci della palude; versi di uccelli dal becco gentile e granivori, di rane e rospi, di topi e di tutti gli abitanti della natura.
Arrivavano finalmente i giorni del grande passo.
Non mancai di dedicarmi alla caccia alla lepre seguendo i segugisti su per l’aspra montagna del Campo dei Fiori, attento a conoscere quando la canea spingeva la lepre verso di me.
Sal Sasso la visione in un unico quadro di cinque laghi, il Varese, il Bardello, il Varano, il Monate e il Verbano, il tutto protetto da lontano dal massiccio del Monte Rosa cangiante di colori dall’alba al tramonto.
Di questo amore per il paese ebbi sentore ogni voltra che ne fui allontanato, rimarginandosi la ferita solo al ritorno.
Nostalgia inconsolabile
Giovinetto fui mandato in collegio. Aggrappato alle inferriate, appollaiato su un costone della Valle Olona, miravo per ore nella foschia la cima del Campo dei Fiori che digradava verso i Caldé e la Motta d’Oro. Sotto vi era il paese che vedevo con gli occhi della mente.
Da militare, le vicende belliche mi portarono per anni nel deserto del Sahara. Nelle notti umide o infuocate sognavo sempre il paese.
Uomo fatto, gli impegni della professione mi fecero trasferire nella metropoli (Milano).
Ma il paese è sempre là. Appena ritorno è festa per il mio cuore malato di nostalgia delle cose che non torneranno più.
Ora è uno scempio: strade, case, ville, stabilimenti, una giungla di mattoni ha invaso i miei campi, sradicato i boschi, i canneti sono stati divelti, la palude bonificata, le acque del lago, un giorno tranquille e baciate solamente dai remi cautamente immersi nell’acqua, sono imputridite dagli scarichi di stabilimenti e di tintorie, e sconvolte dai rumori dei motoscafi e dalle eliche impazzite.
Ma il monte è salvo, sempre come allora, senza strade e senza case, protetto come oasi, salvi i boschi di robinie, noccioli, castagni, frassini, faggi e betulle.
Quando voglio un po’ di serenità, mi arrampico fino alla Val Sara, ove mi attende il frullo di una beccaccia non più insidiata dai fucili.