Le memorie di Adelio Ponce de Leon - Parte Sesta

Memorie di un cacciatore
Dalla culla ai 90: tutta caccia

Gli anni d’oro
di Adelio Ponce De Leon


Nel gennaio del 1931 veniva approvato il primo Testo Unico della caccia, che regolava l’esercizio dell’attività venatoria in tutta Italia. L’apertura e l’esercizio venivano comunicati con un manifesto nazionale valido per tutte le province. Con la sola licenza di caccia si poteva sparare dalle Alpi alla Calabria, alla Sicilia, alla Sardegna in piena libertà senza balzelli ad animali che venivano designati in due categorie: selvaggina nobile stanziale e migratoria con l’aggiunta dei nocivi. Andavano fieri i cacciatori che si dedicavano alla stanziale vantandosi eletti, distinti, elevati, nobili nei confronti degli uccellinai, dei vaganti, dei roccolai, dei capannisti, dei becchipiatti, dei migratoristi, considerati i paria della grande passione. Il nuovo Testo Unico creava anche la Zona Alpi, di difficile gestione tra le pretese dei montanari, gelosi del loro ambiente e della loro fauna, e quelle dei cittadini, che pretendevano uguaglianza di diritti.
Il ventennio che va dalla fine della prima guerra mondiale all’inizio della seconda rappresenta l’ultimo periodo aureo della caccia italiana. In terreno libero abbondavano starne e lepri, ultima progenie nostrana prima delle immissioni straniere, mentre non era ancora apparso in forma popolaresca il fagiano, sconosciuto anche nella maggior parte delle riserve, ripopolate di strane e lepri.
I reduci dal fronte, dopo la vittoria del 1918, si sentivano tutti guerrieri. Il fronte aveva abituato anche i più riottosi a maneggiare il fucile e non furono pochi coloro che chiesero la licenza di caccia per continuare a sentirsi guerrieri per il solo fatto di portare un’arma sopra la spalla.
Ho avuto la fortuna di vivere la mia gioventù durante questo favoloso periodo venatorio. Allora l’apertura il primo di agosto e la chiusura l’ultima domenica di aprile, senza interruzioni, con la possibilità di cacciare a seconda del tempo, del passo e dei vari sistemi di esercizio necessari ai diversi tipi di caccia. Li praticai tutti. Cominciavo ad agosto a quaglie e starne con il cane da ferma nelle campagne di Brebbia verso il lago Maggiore e sulle colline dell’Alto Verbano; non disdegnavo la caccia vagante alle tortore, ai merli e alle gazze, con scorribande fra i prati ai primi nugoli di allodole; partecipavo alle battute con i segugi sul monte ai piedi del paese, attento alle urla della canea, nella speranza che portasse la lepre verso il mio appostamento; in ottobre e per tutto novembre era la regina che mi affascinava sopra tutti i selvatici. Le beccacce arrivavano numerose sul grande massiccio del Campo dei Fiori, alle cui prime salite si trovava il paese; la regina saliva dalla piana, ove aveva pasturato durante la notte nei prati, per posarsi nei boschi della montagna, ove fra boschi di ogni specie di alberi, ma soprattutto nelle vallette umide e fresche trovava riposo e pastura diurna dalla fornitura di cibo prodotto dal terreno, con vermi, lombrichi, lumache e larve. Scarpinavo da mane a sera e avevo imparato a conoscere i luoghi ove ero certo di trovarla, perché sapevo che preferiva il sottobosco di frassini, castagni, faggi, ma soprattutto di robinie. Arrivavo anche in cima al monte, sui mille metri, ove scovavo uno dei pochi branchetti di coturnici, oggi scomparsi più che per lo sterminio della caccia, per la semina dei pini che hanno coperto i prati liberi e le pietraie ove la regina delle rocce amava cerleccare.
Dalla darsena in muratura, sulla sponda del lago vicinissimo alla casa avita, partivo per le mie scorribande lacustri con la barca o il barchetto da pesca, per raggiungere gli appostamenti nascosti nel folto dei canneti, oppure con la spingarda, per palettare su tutto l’ampio specchio d’acqua; dal lago raggiungevo le paludi della Brabbia o il laghetto di Bardello, per gustare il gnech saettante dei beccaccini.
Il giovedì e la domenica erano riservati alla riserva di Tradate, doviziosa di starne e lepri, con mio fratello e con mio padre, soci della concessione. La quota prevedeva per ogni uscita due lepri e tre starne per socio; mio fratello ed io camminavamo da mane a sera, fucile a bracciarm, con il risultato di ponderosi carnieri: sei lepri e nove starne per ogni uscita, perché completavamo la quota anche con i vuoti che avrebbe lasciato papà.
Nonna Adele cucinava una sola lepre all’anno, perché preferivamo i succulenti sughi di quaglie e beccaccini.
Il giorno dopo le battute, mio padre portava il grosso bottino di lepri e starne all’eden gastronomico di Varese, il lussuoso negozio che ammanniva cibi ricchi e rari sotto i portici della città giardino. Il compenso non era denaro, ma leccornie che per tutto l’anno trionfavano nella nostra mensa: caviale e aragoste, patè di uccelli, salse russe nordiche e tropicali, formaggi rari, salumi di gran pregio.
Ho avuto la ventura di vivere intensamente i vent’anni del periodo aureo della nostra caccia, affinando sistemi ed esperienze nella ricerca di migliorare sempre più, e devo a questa attività se sono diventato un cacciatore esperto e valente.
Orge di fatiche e riposi, di gioie e delusioni, di fucilate sempre più veloci e precise, di scarpinate nei coltivi e nei boschi della piana, di arrampicate sul grande monte che sovrastava il paese, di stivavate nelle paludi, di remate sulle barche e di palettate con la spingarda.
A 200 metri dalla casa avita il lago, la mia grande passione. Avevo cominciato a frequentarlo sulla riva a piedi nudi a pescare gobbini, arborelle e piccoli boccaloni e persici. Sulla riva, la grande darsena in muratura poteva contenere otto barche. Da lì partivo con il barchetto da pesca, remando in piedi con la vista sulla punta per raggiungere i vari appostamenti da me costruiti in mezzo ai canneti, per nasconderli ai becchipiatti in volo o in rimessa davanti agli stampi. Nei mesi invernali, ottimi per il passo, partivo sulla spingarda a palettare disteso supino sul fondo, tra nebbie e gelo, per avvicinare germani, alzavole, fischioni, codoni e morette, posati nel centro del lago. Con la barca remavo per ore per la lunga distanza dalla palude Brabbia, ove non andavi mai senza sparare almeno dieci fucilate tra palmipedi, trampolieri e beccaccini. Avevo il palmo delle mani, sotto le dita, con giganti duroni prodotti dai manici dei remi. Ci vollero anni perché scomparissero.
Non disertai la pedana del tiro al piattello, già campioncino a 16 anni. Non dimenticherò mai la prima gara al Kursaal di Varese, quando mio padre ed io arrivammo allo spareggio per la vittoria. Sparai e colpii il piattello, sparò mio padre e visibilmente padellò il bersaglio e il primo premio; ero felice e commosso, ma più commosso era lui, che mi aveva laureato tiratore eccellente.
La pedana in seguito mi diede notevoli successi. Nel campionato nazionale al piattello tra le 92 squadre provinciali composte da tre tiratori, che si disputava a Brescia, vinsi il titolo con Guglielmo Mozzino e Aldo Scioccati, davanti alla forte squadra bresciana, che annoverava Carlino Beretta e Dodo Manfredi, campioni di quel tempo.
Nella nostra squadra, Scioccati era stato sostituito da Dino Guerra, pilota decorato della guerra d’Africa contro l’Etiopia e di Spagna con i fanchisti, personaggio esuberante, scanzonato, gaudente. La sera prima della gara, Dino ci aveva portato alla Torre Azzurra, un ritrovo di lusso. Eravamo usciti alle quattro del mattino, vittime dei sorrisi e delle coppe di champagne offerte dalle compiacenti entreneuse. Andammo in pedana con i pronostici unanimi degli avversari e del pubblico a favore della nostra vittoria, come l’anno prima. Ma non fu così. Su 96 province (perché ne erano state aggiunte quattro della quarta sponda libica) ci classificammo ultimi. Arrivati in pedana, a stento fermi sulle gambe, Dino al piattello di destra sparava a sinistra, io su un piattello basso sparavo alto. Solo Guglielmo, da signore, sparava dritto. Finì tra meraviglia, applausi di derisione e soprattutto fischi. Al ritorno a Varese fummo convocati dal Federale, furente, che ci minacciò di gravi sanzioni e vietò ogni pratica sportiva per un anno, decisione gravissima se si pensa che lo sport giovanile era l’attività principe del regime.
La bella avventura giovanile a caccia finiva nel 1939, quando a maggio varcai il cancello del IV Reggimento Carristi di Bologna per il servizio militare, che durò fino al 1945 in vari fronti, sempre in prima linea.