Beata Inesperienza

Le due, le tre forse le quattro; è una di quelle notti che non vuole finire ed il sonno sembra non arrivare mai. Pesante la coperta, il cuscino si è trasformato in una spugna. Ogni tanto la mia donna mi batte sulla mano, accompagnando al gesto un leggero schioccar della lingua sul palato, come si fa ad un bambino che si sveglia da un incubo. Già, da bambino non avevo mai sonno e poi magari mi addormentavo senza accorgermene e dormivo come un ghiro.
Provo a pensare a qualcosa di piacevole, troppo facile, queste sono cose che succedono solo nei film, l’insonnia è altra cosa. È una smania sottile che ti parte da dentro e ti corrode come farebbe una goccia sulla pietra. Perché non ci avevo pensato, la goccia! Tac, tac una cento mille… Macché, il tempo passa, al ritmo della sveglia, che domani inesorabilmente mi chiamerà al rapporto, che le importa se non ho dormito?
Mi ricordo, quando l’insonnia aveva un’altra matrice, meno adulta e più ingenua. Erano i tempi in cui a tenermi sveglio era l’ansia del giorno dopo, di caccia s’intende. Dubbi e domande che mi maceravano l’anima, montavano dentro al ritmo dei frulli che l’immaginario costruiva nella mia mente. Cose pensate, intuite e sconosciute. Leggi magiche, imponderabili che gestivano folate di passo di cui non si aveva ricordo umano. Allora, a fine Gennaio, potevo sperare di incappare in un passo di allodole, mentre la palude, solo per me, ad onta di quanto mi assicuravano i compagni più esperti, si sarebbe riempita di becchi lunghi. Così, quasi per magia e per ingenua inesperienza.
Il sabato sera, lasciavo Roma in compagnia di Angelo per raggiungere quel posticino, proprio sotto al castello di Federico II° di Svevia, che a Novembre ci aveva regalato tanti tordi. Che importa se eravamo a Gennaio o magari a Febbraio, noi si era lì, convinti, che i tordi sarebbero passati.
Oppure eccomi a bordo di una fiammante spider, vagare in un caldo giorno d’apertura, tra l’Abruzzo ed il Lazio. Non avevo trovato, o forse non si era fatto trovare, l’amico di Avezzano che mi doveva accompagnare a caccia di starne!!! Decisi che l’inconveniente non mi avrebbe rovinato la giornata e puntai il muso della macchinetta verso il Viterbese, per andare a scoprire una riserva, in cui avevo comprato una mezza quota, per il mio giovane bracco italiano, che nel frattempo non faceva altro che sbavare e vomitare in quella specie di loculo rappresentato dai due striminziti posti della Triumph. Roba da bar, non da cacciatori, e non ci volle molto a convincermi su quella strada dissestata che da Civitella Cesi, carraccio carraccio, arrivava alla Vaccareccia. Fui preso dal panico, andare o tornare sui miei passi? Cosa c’era dietro l’ennesima curva? Ma certo, mi ripetevo la mia riserva, ed andavo fin quando il mezzo più adatto a piazza del Popolo che ad una carrareccia della Tolfa, mi impose la resa.
Accostai l’auto, accanto ad una vecchia cinquecento giardinetta, sulla quale c’era seduto un tipo strano, che doveva essere un cacciatore vero, senza fronzoli e griffe particolari, basso con uno di quei maglioncini a tre bottoni, eravamo a settembre, che non si trovano più nemmeno sulle bancarelle. Era lì che aspettava i suoi segugi, e nel vedermi rimase interdetto, non saprei dire se per il cane, che assomigliava più ad un vitello, per la macchina o per il soggetto che la guidava.
Quattro parole per capire con chi aveva a che fare, ed un gesto per scroccarmi una sigaretta, poi un’altra ed infine, quando non aveva più bisogno di me perché nel frattempo i suoi cani erano rientrati, girò i tacchi e si dileguò, con la sua traballante macchinetta lasciando me, la spider ed il bracco nella polvere.
Ma sarebbero stati di lì a poco altri vecchi cacciatori a svezzarmi: i facchini delle cooperative dei Mercati Generali di Roma, che quando non prendevano l’appalto per scaricare un’enorme TIR proveniente da qualche sperduto campo del Sud Italia, si raccoglievano intorno a quella macchietta di Pratica di Mare - la “colonetta” era tutta esaurita fin dalla sera precedente - a cuocere le patate sotto la brace per aspettare l’alba e con lei il primo zirlo.
Mi sopportavano, come del resto tolleravano Rama, la mia bracca, che per un pezzo di quella patata si sarebbe fatta ammazzare, e che mal volentieri abbandonava il tepore del fuoco e la speranza del cibo, per accompagnarmi verso quell’angoletto allagato tra un fosso e l’altro, che di tanto in tanto mi regalava un beccaccino o un porciglione, e che io battevo a prescindere dal periodo, beata inesperienza, sempre con lo stesso entusiasmo.
E proprio ai margini di quel piccolo insieme scomposto di lecci e macchia mediterranea, che un giorno vidi entrare i merli di passo in branco, io che già da agosto li perseguitavo lungo il Tevere e che credevo che quanto mi raccontavano i “cacciatori delle patate” fossero storie di vecchi.
Una lama di luce si fa spazio tra le fessure della serranda e va a colpire, neanche a farlo apposta, i miei occhi, un merlo chioccola disarticolato, mentre un camion della Nettezza Urbana arranca ansimando nella via sottostante, come la mia vecchia Rama, cui non ho voluto dare il disonore di essere portata in braccio a casa, quando negli ultimi giorni il suo povero ingenuo cuore batteva meno intensamente della sua paura. Mi fermavo con lei dopo pochi gradini e mi sedevo accanto, accarezzandole il testone e parlandole di noi, della nostra storia, della nostra caccia, fino a quando, l’affanno è stato più forte del cuore che gli è rimasto sull’ultimo respiro.
La mano della mia donna mi sfiora la schiena, adesso è il suo respiro che si allarga sulla mia guancia, un gesto d’amore ha sconfitto la notte, mentre un cucciolo che si lamenta in una cuccia troppo grande per lui, sconfiggerà la mia solitudine.