Solitamente stava acciottolato davanti alla porticina della sagrestia, sul limitare dell’orto della Canonica. Più che altro sembrava un sacco accartocciato o, al massimo, un “collo di volpe” un po’ troppo grande. Per lo meno poteva essere un incrocio con un ghiro, anche se il Don, lo dava per puro. Certo che, per essere un can-ghiro le caratteristiche le aveva tutte, almeno per quanto riguarda il sonno e l’abitudine di sotterrare le provviste. Fosse stato per il proprietario avrebbe preferito un can-guro, se non altro avrebbe avuto noie con i salti, ma solo con quelli... Quando si svegliava poi, gli pigliava la smania di nascondere qualunque cosa potesse fungere da provvista. Pane, carne, scorze e spesso anche selvatici. Padre Cleto alle volte era sul punto di “dar di matto”. Lo guardava, rigirava gli occhi al cielo e diceva: ”Mio buon Signore. Quali mai saranno le mie colpe, che mi hai affibbiato un cane così folle? Va bene l’estro dell’artista, ma qui si rischia di condurmi a perdere il lume della ragione. Qualche giorno quel cane, mi farà uscir di senno con le sue stravaganze. Non potevi farlo piovere a casa di frate Mauro, che ha il miglior Bracco della Diocesi e lui, invece, non distingue un frullino da un croccolone?”. Poi ci rideva sopra. In fondo sapeva che Napo era un ottimo cane da ferma, con un istinto innato ed una ferma solidissima. La passione per le beccacce e le pernici poi facevano il resto. La genealogia? Se si fosse dovuto “studiare” quand’era acciottolato nella polvere si sarebbe trovato da ridire, ma quando si alzava e si stiracchiava raggiungeva l’apice della signorilità e della bellezza. Un Irlandese. Irish setter lo chiamano da quelle parti, sì, in Gran Bretagna, la patria di Laverack e Llevellin. Certo la stirpe degli inglesi era più rinomata, ma l’eleganza e la maestosità di un Irlandese quando guida e poi, solido ferma il selvatico… Solo gli appassionati possono comprendere cosa provava padre Cleto. L’aveva chiamato Napoleone, Napo, quando aveva fretta. La cosa era nata così. Un bel giorno, avuto in dono il canino da un caro amico non sapeva che nome appioppargli. In quel momento stava leggendo un testo e trovò un passo nel quale si narrava di Napoleone Bonaparte, del suo anticlericalismo, e della diffidenza verso la Chiesa e le gerarchie ecclesiastiche. Infuriato disse fra sè: “ Se lui si è permesso di offendere la mia Fede in modo così ignobile, merita che il suo nome sia adoperato per chiamare un cane”. Ogni volta che qualche nuovo parrocchiano chiedeva spiegazioni sul nome del cane, la risposta era sempre quella, inequivocabilmente. Forse Napo aveva anche la follia dell’imperatore, perché tante volte partiva, sordo al richiamo, con una cosa in bocca, alla ricerca del posto sicuro dove nasconderla e così scavava buche qui e lì per l’orto, per la disperazione di padre Cleto che più di una volta vedeva scalzate le piantine di lattuga o di altri ortaggi. Padre Cleto, poi, non è che si chiamasse proprio Cleto, anche quello era un diminutivo del nome. Era originario del paesello della Canonica e da bambino era una vera birba. Dopo la conversione sperava di cambiar nome, ma il giorno della Consacrazione ebbe la felice sorpresa di scoprire che il Vescovo trovava serio e penitenziale il suo, Anacleto, perciò aveva deciso di non mutarlo, come spesso si usa in quei frangenti e fu così che si trovò costretto a tenerlo per omnia saecula saeculorum. Al ritorno in paese, dopo diversi anni, la gente continuava a chiamarlo con il diminutivo che usavano i fratelli e la mamma, per cui, padre Anacleto rimase per tutti padre Cleto. Nel paesello gli volevano bene, anche se da bambino aveva combinato alcune marachelle degne di entrare negli “annales ” della storia locale; come quella volta dello scherzo al Griso. Il Griso era il capo-muta della squadra dei cani da lepre più nota dei dintorni. Un simpatico segugio a pelo duro, fulvo, di proprietà di Nicola, un caro amico di Matteo, il babbo di Cleto. Ogni volta che Nicola tirava giù qualche bicchierino di troppo, iniziava con i panegirici del Griso. “Il mio cane è il migliore. Segue le peste della lepre come nessun altro. Riuscirebbe a scovarla anche se si mettesse sotto terra. Per la volpe poi… non perdona! Gli si attacca alla coda e non la molla nemmeno se finisce in capo al mondo, fin quando lei decide di rientrare per farsi ammazzare, solo per levarselo di torno. Un fagelo d Dio Ecco perché l’ho chiamato Griso. Pare uno dei bravi di Don Rodrigo. Combatte come un leone e vince sempre, con ogni cane, anche se quello è grande come un cavallo”. I bimbetti sentivano queste storie mentre rientravano a casa e facevano crocicchio per ascoltare Nicola che esternava quanto gli stava in petto. Un bel giorno Cleto disse agli altri ragazzetti: “ Vi fo vedee io che spagheo fo prendere al Griso e a Nicola. Gli metto tanta fifa che a correre si caverà da solo la pelle”. Così detto, racimolò una pelle di volpe che il babbo aveva scuoiato il giorno prima e si preparò al misfatto. L’indomani, atteso che il babbo uscisse di casa, lo seguì di nascosto e quando vide che tutti erano appostati ed i cani pistavano alla grande, fece un giro e con uno stratagemma si portò a ridosso del Griso e lo chiamò. Quello, che conosceva il piccino, gli fece festa tutto contento ed appena gli fu vicino fu un gioco da ragazzi acchiapparlo e assicurargli bene la pelle di volpe alla coda. Legò la stessa con una forcella e fece in modo che in un ramo vi fosse legata la coda della volpe e nell’altro dei campani di vacca. Fatto questo diede il via alle danze scacciando il Griso in malo modo sicché lui, cai, cai, partì filato nella macchia e per il bosco e si portò appresso la muta eccitata dallo scagno. Un finimondo, ci misero quasi una giornata per fermare i cani, finché il Griso, sanguinante e stremato ritornò verso casa e corse per la piazza del paese con i bimbi e la gente che ridevano e gli correvan dietro. L’arrivo dei componenti della squadra completò l’opera. Il manigoldo venne scoperto quasi subito a causa della pelle di volpe con un orecchio forato da un pallettone, il giorno prima proprio da Matteo e la punizione fu esemplare. Fischiarono le cinghiate per tutto il tragitto, fino a casa; poi Cleto fu costretto a pulire il canile di Nicola per un mese, con il compito doppiamente ingrato di nutrire i cani e portarli a spasso, a guinzaglio, nei giorni di “silenzio”. Ancora oggi se qualcuno vuol far diventar serio padre Cleto e poi vuol farlo sorridere, basta narrargli dello scherzo a Nicola ed al Griso per vederlo mutar volto. Nonostante quello ed altri episodi minori, i paesani erano affezionatissimi a padre Cleto e quando lui, alla fine delle sere di preghiera, si riuniva in crocicchio e raccontava le sue avventure o le follie di Napoleone, lo stavano tutti ad ascoltare volentieri cercando ognuno di dispensare consigli sull’addestramento o citando i vecchi esperti o addirittura i mostri sacri del dressaggio, da Laverack a Delfino. Ma non vi era nulla da fare. Un cane folle come quello era impossibile da domare. Si sperava solo di trovarlo in buona giornata e poi ci si affidava al buon Dio. Una mattina partì presto, perché un vecchio legnaiolo gli aveva detto che vi era stata una consistente entrata di beccacce la notte precedente e siccome proprio l’indomani aveva deciso di fare una capatina, sfruttò la dritta e si recò sul luogo indicato. Arrivato dopo alcune ore di cammino al fontanile di marmo si sedette, controllò che tutto fosse in ordine, bevve un paio di sorsi, fece abbeverare il cane e poi lo sciolse. Quello partì come una furia, come fosse stato inseguito da un orda di vespe impazzite. Padre Cleto, si alzò di scatto, si mise le mani nei capelli e pensò di avere trovato la giornata sbagliata, per cui, a testa bassa, aspettò che il cane rinsavisse e si sedette nuovamente sul bordo della vecchia fontana. Dopo una decina di minuti, il grosso campano appeso al collo di Napo si era messo a tacere, almeno cinquanta o più metri in basso . Sulle prime pensò ad una sosta “fisiologica” in seguito alla bevuta nella fontana, poi, dopo vari minuti di silenzio prese a scendere verso la “Reggia dei Brembani”. La reggia dei Brembani era chiamata così a causa delle persone che l’avevano costruita, provenienti dalla Val Brembana. Vennero lì tanti e tanti anni prima per cercar fortuna con il taglio della legna. Costruirono una casipola, tutto sommato carina , sulla costa di un gigantesco canalone di bosco, ai confini di un terreno in leggera pendenza. In paese, all’inizio, li guardavano con diffidenza, perché era gente che parlava poco e lavorava molto. Erano silenziosi e ancor meno confidenti. Se poi si doveva menar le mani, non si tiravano indietro. Alti come marcantoni e con quelle mani che sembravano incudini, erano capaci, con quattro sberle, di mettere a tacere anche il più energico dei provocatori. Perciò, un po’ per l’invidia ed un po’ per la mancanza di frequentazione, in paese, per diverso tempo li tennero a debita distanza. Si diceva che abitassero in una reggia, come fossero nobili , isolati dal mondo, e da lì nacque il nome della loro dimora. Come spesso accade, dopo un periodo più o meno lungo avevano finalmente stretto le loro amicizie e dal momento che erano burberi ma in fondo gran brave persone, erano stati accolti con affetto e si recavano con frequenza in paese, pur abitando sempre nella loro casa che tuttavia mantenne il suo nome originario. Passata la reggia dei Brembani ed arrivato alla siepe di confine Napo si arrestò immobile, fisso, con la pupilla dilatata e le narici a mantice, nell’atto di aspirare l’effluvio. Stette così un tempo immemorabile e poi iniziò lentissimamente a guidare nuovamente e giù lungo la costa verso il centro del canale; per un attimo ebbe un ulteriore rallentamento all’altezza del vecchio castagno , poi riprese con sicurezza e si fermò nei pressi della bicocca bruciata. A quel punto sembrò entrare in catalessi. Se il vecchio Nestore fosse stato lì davanti sarebbe rimasto a bocca aperta e con la pipa in mano ad ammirare la scena, come faceva spesso quando trovava qualcosa di veramente interessante. Il vecchio Nestore aveva consumato una vita alla bicocca e, dopo un tempo non indifferente impegnato a fare il carbonaio, aveva deciso di costruirsi una piccola casipola, bassa bassa, per riposarsi nei momenti di “stanca”. Un bel giorno, rientrato in paese per il gran freddo, aveva dimenticato il braciere acceso dentro la casetta e, com’è, come non è, un lapillo balzò sul pagliericcio che usava per riposare ed in poco tempo la casetta prese fuoco. Al suo ritorno, non si scompose più di tanto. Si fermò ad ammirare il disastro, cavò dalla tasca destra la pipa, da quella sinistra il tabacco ed iniziò a riempire, a bocca aperta. Dopo un po’, finita l’operazione, prese uno stantuffino, pigiò bene il tabacco, cavò un pezzo di carbone ancora ardente dalla casetta ormai bruciata, accese la pipa tirando grandi sbuffi grigi al cielo e disse: “Mah! Si vede che doveva andar così. Si vede proprio che devo rientrare a casa a riposare. Lo dice sempre mia moglie. E dire che più di una volta l’ho ripresa.” E da quel giorno, ogni volta, finito il lavoro, andava a riposare a casa, che poi era poco distante. In seguito ritornava sul luogo, controllava che tutto fosse in ordine, dava gli ultimi ritocchi alla carbonaia e poi faceva rientro per la sera. In quel momento il vecchio Nestore non era sul posto, altrimenti una fumata di pipa non gliel’avrebbe levata nessuno, per alcun motivo. Frattanto, una catasta di frasche con un intrico di rami ed edera sembrava attirare l’attenzione di Napo. Padre Cleto si diresse con circospezione verso quel punto, cercando di fare meno rumore possibile ma, arrivato ad una ventina di metri, notò che il cane aveva ripreso la guidata ed allora cercò di assecondarlo scendendo giù nella costa verso il bordo del fiume. Napo camminò circospetto, cercando di farsi più piccino, se era possibile. Il calcio della vecchia Bayard raschiava rovi e pruni e li spostava, spinto dal nervosismo e dall’ansia di padre Cleto. L’umidore dell’ambiente, il marciume delle foglie, per lo più attutivano i rumori, ma, la guazza era insopportabile, per cui , dopo quel non brevissimo tragitto , cane e padrone erano completamente bagnati fradici, ma questo non li spaventava affatto. Napo, saltato il tronco cavo era sceso più in basso, puntando diritto sulla “pozza di Carlino” e di lì si era acquattato lungo il bordo, seminascosto tra l’erba di fiume ed i cespugli della bordura, cercando di dare nell’occhio il meno possibile. La pozza di Carlino era costituita da un piccolo “largo” ad un certo punto del ruscello montano, ben noto a padre Cleto ed agli abitanti del paese, non solo per la pesca delle trote, ma anche perchè, un certo Carlino Petroni, figlio di un altro amico del babbo di padre Cleto, tale Amedeo Petroni, un bel giorno aveva combinato una marachella così grossa che per poco non finiva in tragedia. Tutto si era concluso per il meglio e quindi era rimasta la leggenda, in paese, ma lì per lì il fattaccio era proprio grosso. Carlino, vedendo che i grandi rientravano con delle belle trote pescate per lo più a lenza o sbarrando la pozza con una rete a sacco e poi recuperandone il contenuto, volle tentare l’impresa pensando che, se i pesci erano tramortiti, sarebbe stato più facile recuperarli. Fu così che si procurò un barattolo di solfato di rame, lo miscelò con un'altra porcheria e dopo avere accuratamente tappato la strettoia della pozza con alcuni rami rovesciò il tutto all’interno. L’acqua divenne verde, poi blu, poi azzurrina con riflessi metallici. Dopo un po’ iniziarono a salire a galla i pesci, le rane, le bisce d’acqua, le anguille, le tartarughe e quant’altro popolava quella pozza e gran tratto del fiume. Resosi conto dell’enormità del guaio fuggì e cercò di dare l’allarme ma per le tre capre di Vittorio, la mucca della Guendalina e ben nove delle oche di Giancarlo non ci fu niente da fare, vennero trovate lungo la pozza stecchite e secche come legni. Per giorni e giorni fu vietato alla popolazione di avvicinarsi al fiume e soprattutto a quel tratto ed a quella pozza, poi l’allarme rientrò e si potè ritornare. Carlino venne punito in maniera esemplare. La mattina doveva andare ad aiutare Vittorio a mungere le capre e portare il latte alla latteria. Poi si doveva recare a foraggiare le vacche ed i vitelli, ed immediatamente dopo si recava a nutrire le oche ed a cambiare loro l’acqua della tinozza. Una fatica sovrumana, ma se Carlino avesse dovuto considerare le diecimila cinghiate che gli aveva promesso il babbo se non avesse svolto quei compiti per due mesi, in fin dei conti quello era un peso sopportabilissimo. Napo intanto continuava a star fermo rimuginando sul da farsi, mentre padre Cleto gli stava d’appresso tallonandolo con circospezione. Davanti a loro la bordura delle tamerici nascondeva un tratto di fitti piantoni che sicuramente facevano da rifugio a qualcuno. Presa una decisione, Napo si avviò strisciando nell’acqua come un serpente, guardingo ma risoluto , finché, arrivato sull’altra sponda, senza nemmeno scrollarsi , si irrigidì, nuovamente in ferma, mentre tremava come una foglia a causa del liquido gelato ed il corpo evaporava per lo sbalzo di temperatura. Fece per muoversi e si udì come lo sbattere di un sacco ed un : “Ooooh!”, dietro di loro, nella costa da cui erano scesi. Frate Mauro, con due confratelli, non aveva resistito e,viste le prime mosse, dall’alto, aveva legato il suo Bracco e si era seduto , estasiato , ad ammirare quel cane cacciare come un grande campione. Il migliore. Aveva avvertito i suoi confratelli.: “Il primo che fiata o spara un colpo ad un palombaccio dovrà fare penitenza per un mese. E’ un peccato rovinare una cacciata così ”. Poi si era tradito lui stesso perché non riusciva a trattenere l’emozione per quella vista. Grande esperto ed appassionato di cani aveva un Bracco italiano di taglia leggera , considerato il migliore nei dintorni, ma davanti a quella scena era rimasto senza fiato ed aveva degradato, d’ufficio , il suo pur ottimo cane, al secondo o al terzo posto. Padre Cleto si voltò, vide gli spettatori, volse gli occhi a cielo, si asciugò la fronte e si preparò agli eventi, stringendo sempre più forte il calcio della Bayard. Napo riprese a guidare e dopo altri trenta metri si bloccò, come indeciso. Aveva una fitta siepe di pruni, salsapariglia e mirtilli davanti e per riuscire a proseguire doveva necessariamente aggirarla o passarci dentro, cosa non facile in entrambi i casi, perché: primo, la siepe era molto lunga, da un lato e dall’altro e secondo, era molto fitta, impenetrabile. Napo si guardò attorno, fece alcuni passi indietro, prese la rincorsa e saltò la siepe a piè pari, volando così alto che frate Mauro si lasciò scappare un : “O Signur!” e subito si segnò, credendo di aver commesso peccato. Padre Cleto sentì l’esclamazione, si volse, scambiò lo sguardo con il confratello, portò l’indice verso il naso e disse:”Ssssssssst!”, come a far capire che era il caso di fare silenzio assoluto. Nel frattempo Napo era arrivato a ridosso di un gruppetto di alberi giovani ed era rimasto in ferma secca, in completo silenzio, con il campano che aveva appena inviato l’ultimo sonoro eco nel bosco grondante d’umidore. Padre Cleto si appressò e nel farlo ruppe un rametto rinsecchito e questo bastò a far sì che un ombra si levasse fragorosamente da terra e cercasse di porsi tra il cane ed una macchia di sporco più fitto. Fu un istante, un boato sordo, una leggera nuvola di fumo ed un fagotto di piume che scendevano leggere portate dalla brezza. Napo era scattato e con grande sorpresa di frate Mauro, ma soprattutto di padre Cleto, era tornato, tutto tronfio, con la preda in bocca, perfettamente conservata, senza sbavarla , riconsegnandola al legittimo proprietario. In pochi istanti il terzetto di frati fu vicino al padre Cleto elogiandolo per l’ottima cattura e magnificando le doti del cane, mentre lui si scherniva e Napo accettava complimenti da tutti non lesinando slinguazzate bavose agli astanti e godendosi il suo momento di gloria. Terminata la mattinata, fecero una sosta e così padre Cleto volle nuovamente provare le doti del suo splendido cane lanciandogli un “oggetto” da riportare. Quella prodezza fu subito premiata, ma dato il risultato dell’ ”operazione riporto”, è augurabile che gli oggetti piantati nel terreno diano buoni frutti e crescano rigogliosi, perché, da quel giorno, padre Cleto non riuscì mai più a ritrovare il luogo di sepoltura dei suoi guanti grazie alle magnificenti doti di riportatore possedute dal mitico Napoleone.

Autore: Luca Davide Enna

Luca Davide EnnaClasse di ferro 1895; si era sciroppato tranquillamente due guerre. La prima, la “grande guerra”, nelle trincee del Carso e poi a marciare, vecchio scarpone, sui monti e giù , lungo il Piave, nel tentativo glorioso di fermare lo “straniero” invasore. Certo, sul Carso era molto più giovane e saltava nelle trincee come uno stambecco in fuga, ma anche adesso, il fisico e l’età non troppo avanzata, uniti alla conoscenza dei luoghi lo rendevano quasi padrone di quelle montagne. Anni dopo, nuovamente in marcia, ora su Roma, contro i disordini e gli “imbelli”, attratto dal nuovo “faro “ nazionale rappresentato dall’ ”uomo del destino”. Vent’anni di marce e adunate e infine la seconda grande guerra e la delusione per le scelte sbagliate del “suo” capo e condottiero e il rimpianto per la sua gente con gli orrori e la miseria lasciati come ricordo vivo su un popolo pesantemente provato e profondamente sconfitto. I giorni di Piazzale Loreto ed i rastrellamenti e poi lo sconforto per tutti gli avvenimenti e per gli anni trascorsi. Dopo la guerra e la distruzione era arrivato il periodo delle vendette e dei regolamenti dei conti. Lui conosceva bene la situazione e, pur non avendo mai fatto del male a nessuno, sapeva che qualcuno avrebbe potuto cercarlo. Aveva la coscienza serena, ma quella folata di nuovi venti di odio non gli dava pace. Nei momenti di pausa pensava alle battaglie, agli amici scomparsi, al Pinin, al Luigino, al Mariotto o al caporalmaggiore Lusetti ed a cento , mille altri che diedero la vita per la propria Patria e per il proprio popolo. L’autunno incipiente ed il profumo dei rododendri lo strappavano con forza per riportarlo al presente, ma lui divagava e pensava con tristezza alla sconfitta ed alle vendette collaterali, alla chiusura di un’ epoca ed all’avvento di una nuova. Il Governo, pressato dalle richieste insistenti, aveva promesso che sarebbe intervenuto per fare chiarezza; i parenti delle vittime dell’odio aspettavano, ma oramai erano passati alcuni anni e nulla si era saputo, se non che migliaia di famiglie piangevano i loro cari, in silenzio, senza più speranze di ottener giustizia. Molti suoi amici: proprietari terrieri, studenti, insegnanti, dirigenti, avevano subìto ritorsioni ed alcuni avevano pagato con la vita la loro vera o presunta appartenenza al partito. E’ il destino dei vinti, vittime del rancore e, a volte, vittime della storia. Là in alto, vicino al cielo, credeva di trovare più conforto, di sentirsi sereno, accanto a Dio, anche quando l’angoscia per quella stagione dell’odio lo attanagliava con le sue immagini sparate nella mente come bagliori improvvisi. Lui aveva comandato una divisione, aveva perso molti uomini e fino all’ultimo si era illuso di poter salvare la Patria, ma sapeva bene che le sue speranze erano vane. L’aveva scoperto fin dal giorno che i capoccioni avevano deciso di spostare il Governo e la repubblica stessa, dall’Urbe, fino a quella che lui chiamava “la repubblica dei salotti”, dando ad intendere che “quelli”, assieme ai crucchi, avevano già deciso tutto, comodamente seduti in qualche boudoir.
Ma oramai, anche quella era una storia chiusa. Il popolo è severo nel giudizio, così com’è esaltato nell’acclamazione. Nell’incontro tra il giovane scrittore Ugo Foscolo e Giuseppe Parini, l’anziano poeta diceva: ”L'umanità geme al nascere di un conquistatore; e non ha per conforto se non la speranza di sorridere su la sua bara”… In sintesi un giudizio lapidario che aveva portato i responsabili delle tragiche e folli scelte, dai fasti di piazza Venezia al tragico epilogo di Piazzale Loreto. Anche un “vecio” come Giuanin aveva dovuto fare i conti con la storia e cercava disperatamente di farli pareggiare. Si ripeteva che, in fondo, aveva sempre fatto il suo dovere, anche quando aveva chiuso un occhio per far sì che qualche ragazzo scampasse dalla prigionia, come quella volta del “biondino”. Giacomo, detto il “biondino” era diventato un avversario, sebbene all’inizio fosse solo un povero disgraziato scappato ai rastrellamenti assieme ad una manica di sbandati. Lui, Giuanin, li aveva beccati nascosti in una stalla e, prese le generalità, sulle prime aveva pensato di consegnarli, ma poi, spinto dal rimorso e conscio che quei ragazzetti avevano su per giù l’età del figlio, li aveva fatti nascondere e aveva indicato loro il modo per scappare sui monti. Alcuni di quei ragazzi si aggregarono alle truppe di liberazione ed al momento della resa dei conti andarono a rastrellare quanti più “nemici “ potevano. Tra essi vi era un gruppo che , per contrapposizione all’esercito “regolare”si chiamava: le “Penne rosse”. Erano spietati e non facevano prigionieri. Il biondino assistette una volta ad un processo sommario e questo bastò a fargli capire che non era giustizia, ma solo vendetta quella applicata dai suoi amici, per cui, prese la sua strada. Tutto capitò per caso, un giorno. Durante uno degli ultimi assalti catturarono un piccolo drappello di Penne nere che rientrava presso le linee difensive. Fecero un breve processo e decisero di metterli al muro l’indomani mattina. Il biondino riconobbe subito il Giuanin, ma fece finta di nulla, per non compromettere se stesso ed i prigionieri. A notte inoltrata, poi, liberò tutti e si mise in fuga per non subire ritorsioni. Al momento dell’addio guardò il “vecio” e gli disse: “Vi ho reso il favore, ma vedete di non scontrare nuovamente i vostri scarponi con i miei. I vostri amici crucchi mi hanno fatto orfano e vi salvo la vita solo per rendervi pariglia, come avete fatto voi quando ci incontrammo. E adesso, ognuno per sé e Dio per tutti”. Si girò di spalle e scomparve nel buio. Da allora non si videro più. La guerra finì come finì e la liberazione durò ancora alcuni anni, perché con qualche scusa diversa, c’era sempre qualcuno che si voleva “liberare” di qualcun altro…. I luoghi delle battaglie divennero silenziosi e la natura riprese possesso dei suoi territori. Con difficoltà e laboriosità risanò le ferite e fece crescere un manto di erbe e fiori nelle fosse lasciate dai mortai . L’acqua levigò i lati delle trincee rendendole meno aggressive e cespugli ed arbusti abbellirono gli avamposti abbandonati. Sulle cime regna sempre un silenzio maestoso, rotto di quando in quando dai richiami di qualche rapace o dai versi degli altri animali montani. Da tanti anni Giuanin conosceva quei luoghi ed i richiami e gli erano familiari, ma per diverso tempo era stato lontano a causa delle umane vicende che spingono un uomo in divisa a difender la Patria, anche in nome di un’idea sbagliata. Si consolava solamente durante le giornate trascorse in mezzo ai boschi, tra le fronde, a contatto con gli alberi che lo avevano visto crescere: in silenzio, da solo e con la suo Birba, una pointer bianco-nera …. Un suo caro amico, Gianmarco, l’aveva recuperata presso un’aia di contadini, dopo essersi informato dell’origine e degli eventuali proprietari. Aveva ottenuto la risposta che in quella fattoria c’erano già troppi cani da mantenere e che quella cucciolata era di undici cuccioli, quindi, almeno quella canina era da “sbolognare”, così la prese con sé e ne fece dono al Giuanin. Erano gli ultimi due anni della seconda grande guerra, quindi, l’allevamento e l’addestramento della vivacissima Birba furono eseguiti, non senza difficoltà, ma, la sua naturale predisposizione e la grande volontà ne fecero comunque un esemplare eccezionale. Una volta concluso il conflitto mondiale, Giuanin passava più tempo possibile nei boschi insieme a Birba e cercava di unire l’utile di procacciarsi il cibo al dilettevole, di svagarsi, dopo gli anni passati a marciare “ per conto terzi”. Beccacce, starne, bianche, beccaccini, galli, non vi era alcun selvatico in grado di scampare al fiuto di quella cagna. Lei riusciva ad intrufolarsi dappertutto, incurante dei graffi. Il manto la faceva ritrovare in mezzo al fogliame, anche se aveva un collegamento istintivo al proprietario, perciò, dopo ogni esplorazione, ritornava alcuni metri indietro per valutare la posizione di Giuanin. Gli occhioni dolci e vispissimi, il muso umido e quelle orecchie nere e triangolari gli davano un aria buona, ma birichina, forse per quello il padrone l’aveva chiamata Birba. Tempo dopo, Giuanin aveva saputo che la cagnetta era di proprietà dei Tomelli, i contadini possidenti della famosa fattoria dove Gianmarco la trovò. Grandi appassionati delle cacce con il cane da ferma, in quel periodo i Tomelli non se la passavano benissimo, perché ricevevano spesso le “visite” degli imboscati che scendevano dai monti a fare rifornimento “gratis”, per la “causa” e poi le altre “visite”, dei crucchi, che ordinavano loro di fornire il cibo per la truppa. E’ logico pensare che in quella situazione precaria, una cucciolata non fosse proprio la benvenuta, per cui anche degli irriducibili come i Tomelli dovettero disfarsi di quasi tutti i cuccioli. Una volta, durante una delle periodiche discese notturne, un giovane di quelli scesi a caricare il cibo da portare su in montagna vide quei cuccioli e ne chiese uno, che, naturalmente i Tomelli gli donarono ben volentieri, per diminuire le bocche da sfamare. Giacomo, il giovane ribelle , detto il “biondino”, aveva una passione per la caccia ed una predilezione per quella razza canina, quindi portò con sé la cagnetta, la nascose presso alcuni conoscenti e riuscì, in modo più o meno rocambolesco, ad allevarla e ad averne cura. Dopo un paio d’anni, Daina, la cagnetta, era divenuta bravissima. Le starne, a valle erano abbondanti e l’incontro con le “brigate”, frequente. Una sortita con la Daina serviva a rifocillare la famiglia. Al rientro, cena e poi a nanna, salvo un paio di giorni a settimana durante i quali Giacomo si recava presso la sede del partito per ricevere gli ordini e gli eventuali “contrordini”. Lì aveva imparato chi erano gli infami, i profittatori e gli oppressori del “popppolo”. Lo avevano addirittura informato su quella che sarebbe potuta divenire la sua seconda patria, in caso di vittoria. Anche se lui non era convintissimo ed aveva, in fondo al cuore, ancora un debole per lo stemma Sabaudo cucito sulla bandiera tricolore. Il lavaggio del cervello era martellante e tutte le frasi ascoltate gli ronzavano in testa e riusciva a dimenticarle solo quando inseguiva la sua Daina. In fondo, anche Giuanin era così. Pure lui si era sorbito anni di adunate, comizi, frasi altisonanti. Il “nemiccco”, il “rapace d’oltralpe” (divenuto, in seguito, inspiegabilmente, “amiccco”…) , l’”Autarchia” ecc., erano stati , per anni termini d’uso quotidiano, poi, naufragati i destini d’Italia, proprio sul mare, si era pensato bene di riporre vessilli e gagliardetti nelle cassepanche ed affidarli al giudizio della storia, quella Vera, con la S maiuscola, non quella plasmata dai vincitori. Forse la differenza tra il “biondino” e Giuanin stava nel diverso atteggiamento che essi avevano nei confronti del mondo che li circondava. Il primo, nonostante l’imbottitura bisettimanale di “dottrina”, ma forte delle brutte esperienze di fine-guerra, cercava di seguire i dettami, anche se su alcuni temi rimaneva scettico; il secondo conosceva la dottrina del “ventennio” ed era profondamente deluso ed amareggiato per l’epilogo e per le tragedie che esso aveva procurato. Quella mattina Giuanin si era recato nel bosco di buon ora ed aveva fatto un ampio giro senza trovare nulla di significativo, tranne una grande varietà di funghi. Seguiva con attenzione la sua Birba , perché aveva l’idea che i selvatici fossero lì vicino e qualcosa nell’aria gli faceva pensare che sarebbe riuscito nell’intento di catturare anche il vecchio gallo di monte che inseguiva da giorni. Birba era una cagna incantata, simpatica nel nome e nobile nell’aspetto e negli ascendenti. Bellissima pointer bianco-nera, che scorrazzava maestosa ed a testa alta tra i rododendri e la sterpaglia come portata dal vento. Giuanin l’ ammirava estasiato, torcendo i baffoni all’insù e respirando grandi boccate di aria cristallina. Si spostò verso la valle per battere quella fiancata di macchia che dava sul lato del fiume e poi, magari proseguire tra i grani tagliati e le stoppie. Disceso per un pezzo e superato il fiume vide la Birba che risaliva arrancando e spariva, in alto dietro ad alcune macchie più fitte. Con calma si avviò verso quei luoghi e poi prese a cercare la cagna, dato che pensava fosse già ferma su qualche selvatico. Arrivato a poche decine di metri dalle macchie vide la cagna ferma con gli occhi scintillanti e lo sguardo fisso verso un punto. Si avvicinò con cautela, raggiunse uno spiazzo pulito e si appostò. Al via, la cagna “ruppe” e frullò un grosso gallo che piegò subito di lato con un fragore assordante. Giuanin lasciò andare una botta e corse a vedere l’esito della fucilata. Attese alcuni istanti ed ordinò alla cagna di riportare, ma quella , anziché fare come al solito, prese in bocca il gallo e si avviò per i viottoli, incurante dei richiami. Giuanin chiamò a gran voce, fischiò, ma per un bel pezzo la cagna non si fece viva. Poi arrivò ansimante, con un grosso fagotto in bocca e si sedette ai suoi piedi tutta contenta. L’alpino non riusciva a credere ai suoi occhi; era totalmente sbigottito. Prese la grossa lepre dalla bocca della cagna, la rigirò e notò i fori dei pallini dietro le orecchie. “Eppure sono convinto aver tirato ad un Forcello. Mi starò mica rimbambendo? Che razza d’imbroglio può essere questo. E tu, birba di una Birba; possibile che non dici nulla? Non ti volti al richiamo e poi, bella bella, mi riporti una lepre al posto del Gallo…Mica siamo al mercato, dove si cambia la merce che non ci va o dal prestigiatore. Questa poi, la devo raccontare giù a valle, anche se son certo che mi prenderanno per matto”. Intanto, poco dietro il crinale, il biondino cercava di capire come possa una lepre tramutarsi in un Forcello, cioè , infagottarsi, impiumarsi e cambiar forma. “Eppure ho sparato a terra, verso questa macchia di mirtilli. Quando ha sviottolato, sono certo che fosse una lepre. E’ meglio che non lo racconti alla “sezione” , altrimenti mi prendono per pazzo”. Frattanto la cagna aveva ripreso a correre ed ora “segnava” forte la traccia di un selvatico, fino a quando si bloccò in ferma. Giacomo si appressò e si preparò a sparare. Era quasi arrivato sulla sommità della collina e dall’altra parte c’era il canale del fiume. Partì un fagiano maschio stupendo, sul limite del tiro, che, preso in pieno dalla rosata, andò a cadere dall’altra parte della costa. Di lì a poco arrivò la cagna tutta trafelata, con una beccaccia in bocca. Nello stesso istante, il biondino, poco lontano, prese il fagiano tra le mani e, tremando, si sedette, fortemente preoccupato per la propria salute mentale. Dall’altra parte, la Penna nera, continuava a guardare la Birba e cercava di capire il perché di quella trasformazione, pensando che potesse essere avvenuta durante la caduta… “Eppure era un fagiano. Ne sono sicurissimo. Se non fossi certo di aver bevuto, penserei di esser brillo”. Diceva tra sé e sé, preoccupato, il “vecio” Giuanin. Arrivato sul crinale vide nuovamente la Birba puntata e si appressò curioso di sapere se quella magia poteva ripetersi. La cagnetta si arrestò di scatto e di lì a poco frullarono tre starne. Nel mentre sopraggiungevano alcuni colombacci; non curandosi di essi, Giuanin prese la mira e tirò ad una delle starne . Con sua grande sorpresa si accorse che contemporaneamente uno dei colombacci cadeva giù, lì vicino, oltre il crinale e di lì a poco arrivava la Brina a riportarlo. Decise di andare a sincerarsi su quell’episodio e nel frattempo legò la cagna. Percorsa poca strada si sentì chiamare. “ Voi” disse il biondino “ che cosa fate con la mia cagna al guinzaglio? E’ forse questa, l’usanza dei cacciatori di queste parti?”. “Quel gallo l’ho scovato io” disse Giuanin”. “E quella lepre che portate l’ha scovata la mia cagna“, rispose il biondino. “ Per qual motivo avete scambiato il vostro selvatico con il mio? E che volete dalla mia cagna, se la vostra vi scorrazza tranquillamente a fianco?”, disse l’alpino ; e il ragazzo di rimando: ” Guardate che io salgo da valle e da parecchia strada avevo la cagna che tracciava questa lepre, tant’è che l’ho sparata sotto ferma; quindi vi prego di non insistere con le vostre pretese. Inoltre la cagna che mi segue è venuta dall’altra parte della costa, somiglia alla mia , ma ha una macchia bianca in fronte, particolare non presente nella mia che ora voi tenete scorrettamente a guinzaglio” . “Allora voi avete preso anche il mio fagiano e la mia starna”, disse la Penna Nera; e la penna Rossa , rispose : “ E voi per vendicarvi avete preso pure la mia cagna”. Giuanin si sentì offeso nell’orgoglio e si avvicinò al giovane togliendosi il cappello, pronto a redarguirlo a dovere. L’altro si fece avanti impettito e quando furono a pochi passi rimasero sbigottiti, a bocca aperta come due vitelli in cerca di latte. ” Ma, voi, lei, tu. Non è possibile” disse il vecio. E l’altro, sbigottito: “Tenente colonnello…mah, ma, non si era rimasti dell’accordo che io e Voi non ci si doveva più incontrare?”. Giuanin guardò il giovane e disse : ”Come sei cresciuto, biondino. Sei diventato un uomo. Quasi non ti riconoscevo”. Il biondino lo guardò, buttò il fucile a terra e corse ad abbracciare la vecchia Penna nera. Piansero e ricordarono quei giorni. Giuanin disse: ”Sono contento di averti fatto scappare, mi ricordavi mio figlio e non mi sarei mai perdonato di farti del male”. E, il biondino: ”Io invece vi ho fatto scappare perché mi ricordavate mio padre e, ho pensato molto a lui ed a voi in questi anni. Lui sarebbe stato fiero del mio gesto, anche se io all’inizio ero poco convinto”. Il vecio lo guardò col viso sereno e disse: “La guerra non è riuscita a distruggere i nostri pensieri buoni e questo mi sembra un bel risultato. Tanti morti, tante vite, non sono finite invano, ma servono perché quelli come me e come te costruiscano una Patria migliore”. Dietro ai due si stagliava alta la cima della montagna ed il silenzio faceva da contorno alle loro voci ovattate. Parlarono, discussero, raccontarono fatti ed episodi, poi si fermarono a guardare i cani che scorazzavano felici e rimasero in silenzio pensando alle vicende passate, agli orrori vissuti, al loro coraggio di stare da una parte o dall’altra, entrambi, per la scelta che ritenevano migliore per se stessi e per gli altri ed al nuovo futuro che si prospettava davanti a loro, sicuri di affrontarlo, con coraggio, per costruirlo insieme.

Autore: Luca Davide Enna
Caccia nel MondoCome ogni anno, all’inizio della stagione venatoria, gli affecionados alla caccia all’estero, iniziano a guardarsi intorno per organizzare al meglio le proprie battute.
Ed ogni volta spulciano depliant e riviste alla ricerca di novità, che gli operatori fanno sempre più fatica ad offrire.
Finiscono così, il più delle volte, a tornare sulle vecchie strade, perché come dice l’antico proverbio: chi abbandona la strada conosciuta, sa cosa lascia ma non sa cosa trova!
Ed allora proviamo a fare un giro tra le mete più ambite, per aiutare i nostri amici, a districarsi tra le mille proposte, e magari scoprire che, la novità, forse non è utopia.
Specie: Peppola (Fringilla montifringilla)
Ordine: passeriformi
famiglia:  fringillidi
Dimensioni: Lung. 14 cm, ala 8 cm, peso 25/28 gr.
 
Con comportamenti e abitudini molto simili al fringuello, la Peppola frequenta soprattutto i campi coltivati sia di pianura che di montagna oltre i pascoli ai limiti dei boschi. Comunque, il bosco di conifere è il suo habitat naturale. La sua alimentazione si basa soprattutto su semi, bacche, ed piccoli invertebrati. In Italia la sua presenza e' limitata quasi esclusivamente ai mesi invernali.

Guarda la foto su Wikipedia
Specie: Verdone (Chloris Chloris)
Ordine: passeriformi
famiglia:  fringillidi
Dimensioni: Lung. 14 cm, ala 8 cm, peso 25/30 gr.

Specie gregaria, si adatta in qualsiasi habitat, preferendo le campagne alberate, boschi e frutteti. frequenta anche giardini pruche posti nelle vicinanze di campi coltivati, in quanto essendo un uccello granivoro si nutre di semi, con particolare preferenza di quelli oleosi, durante il periodo della riproduzione non disdegna anche qualche insetto. Nidifica sui grandi alberi, depondendo di media 5 uova, in nidi molto elaborati e imbottiti.