Memorie di un cacciatore

Dalla culla ai novanta: tutta caccia
Sotto le armi: pensieri, ricordi, sogni

di Adelio Ponce De Leon


La caserma del Terzo Carristi in San Ruffilio di Bologna mi inghiottì in una tarda sera di fine autunno per il corso di allievi ufficiali. L’Italia era occupatissima nell’irrobustire i quasi otto milioni di baionette. Mi accorsi subito di questa urgenza perché non si aveva nemmeno il tempo di respirare. Appena arrivato al corso ero diventato un numero, una nullità, fino al momento in cui, terminata l’istruzione formale, ci portarono al poligono di tiro. Scaricai i due caricatori nel centro dei bersagli, superando anche gli istruttori. Divenni “qualcuno” il giorno in cui sparammo dal carro armato in movimento con la mitragliatrice. Il ritmo frenetico del corso concedeva un minimo di spazio la sera, dopo il silenzio, nel duro letto che costava tanta fatica rifare, identico al centimetro a quello accanto, all’alba. Prima di chiudere gli occhi, ottenebrati dalla stanchezza per la giornata passata sempre di corsa, andavo con la mente alle vicende di caccia di quella stagione, che era stata stroncata nel momento più bello del passo. Tutti amiamo fantasticare prima di dormire. Sognare ad occhi aperti gli episodi del passato, immaginare imprese eroiche, essere protagonisti delle ambizioni coltivate da sempre. Io amavo ricordare gli episodi venatori che mi avevano dato tante soddisfazioni.
Come quel giorno in cui mio padre invitò il Procuratore del Re e il Primo Pretore di Varese a caccia nella riserva di Tradate. Partimmo che era ancora notte con il primo treno delle Ferrovie Nord, in seconda classe, in quanto non si potevano portare i cani sui velluti rossi della prima. Tissi, il Procuratore, giuliano e legionario fiumano, buon cacciatore, e Leosco, il consigliere, gran padellaro e mio padre confabulavano per organizzare la logistica della cacciata. “Nella riserva non è consentita la caccia a gruppi di più di tre cacciatori” disse mio padre “e noi siamo in quattro”. I tre personaggi, all’unisono, rivolsero lo sguardo verso di me, giovincello pallido e magro, e subito mio padre aggiunse “noi tre andremo ai Ronchi, sopra la ferrovia, dove abbondano lepri e c’è la possibilità di trovare qualche beccaccia” poi, rivolgendosi a me “tu andrai sotto la ferrovia, verso la Cassinetta. I cani li prendiamo noi, devo far divertire i miei ospiti”. “Mah” osai obiettare, “senza di me chi andrà nel folto, chi guiderà i cani, chi scoverà le lepri al covo?” “Taci saputello, con Tissi prima di mezzogiorno avremo fatto la quota; appuntamento al bar della stazione” disse autoritario mio padre. I tre, prima di lasciarmi solo, spavaldi, mi licenziarono con un sorriso di scherno. Mi incamminai così, da solo, verso i boschi della Cassinetta. Era una fredda giornata di novembre, con il terreno coperto di brina. Nell’attraversare un campo arato scrutavo fra le zolle sconnesse perché sapevo che, quando il terreno è brinato, la lepre ama aspettare al pulito i primi raggi del sole. La individuai una frazione di secondo prima che schizzasse via, a una decina di metri. Si trattava di un tiro facile e infatti la colpii di prima canna. Poi, soddisfatto, mi diressi verso il grande bosco di robinie per controllare se vi si fossero rifugiate le starne levate dai cani dei cacciatori mattutini. La brigata si rimetteva sempre in uno spiazzo pulito che si apriva nel grande sottobosco di pagliettoni; fucile a bracciarm, senza fare il minimo rumore, trattenendo quasi il fiato, procedevo con cautela. Il frullo fragoroso del branco non mi colse impreparato: mirai con calma, facendo un bel doppietto. Poi mi diressi verso la presunta rimessa, che immaginavo potesse essere un altro piccolo spiazzo pulito. Ancora una volta ero riuscito ad arrivare a tiro riuscendo a incarnierare la terza starna. La seconda lepre potevo andare a cercarla solo percorrendo pian piano il fondo del Fontanile, scrutando attentamente le due sponde coperte di erbe basse e roveti. Avevo imparato dal vecchio bracconiere Framasun le malizie per scorgere la lepre al covo. Eccola! Intravidi un occhio e un pezzetto di testa in un groviglio di rami e foglie. “Se la faccio partire non riuscirò a spararle perché sparirà appena dopo il salto” penso. Sono senza cane non per mia scelta, così sacrificai la sportività dell’azione alla piccola rivalsa nei confronti di mio padre e dei suoi ospiti. Mirai davanti e sotto al muso per non rovinare la lepre e lasciai partire il colpo. Due lepri e tre starne, la quota era completata; mi diressi verso la stazione, carico di peso e di soddisfazione. Dovendo attraversare il bosco del Ponte, come al solito, procedetti a zig-zag, indugiando a scrutare il terreno. Venni attratto da alcune fatte freschissime di beccaccia. Tolsi il fucile dalla spalla e mi tenni pronto, avanzando piano; fatti pochi passi la beccaccia frullò a campanile e la abbattei senza difficoltà. Al bar della stazione venni attorniato dai clienti domenicali. “Sono stanco, prenderò il primo treno, consegnate a mio padre e ai suoi amici questa roba” dissi loro, e posai lepri, starne e beccaccia su di un tavolino. A sera seppi che i tre grandi cacciatori avevano fatto cappotto…
Oppure come quell’altra volta in montagna, al Sass Gross, nella riserva Cocquio, con mio padre e mio fratello Eustachio. Una faticosa giornata nei boschi scoscesi di robinie, noccioli e castagni, durante la quale vedemmo un solo fagiano che si buttò a palla verso il basso come un forcello. Eustachio riuscì a centrarlo in piena picchiata. Stanchi decidemmo di scendere verso il paese. Mi dettero del pazzo quando feci loro la proposta di attraversare il paese e di battere le campagne di confine con il terreno libero giù verso Bardello. Cocciuto li abbandonai e mi buttai nella ripida discesa. In meno di un’ora arrivai alle campagne ondulate imbattendomi in un grande passo di allodole. Feci fuori quasi tutte le cartucce con pallini grossi adatti alla stanziale ottenendo comunque un pingue bottino. Nell’unica marcita di tutta la riserva, nascosta fra filari di pioppi, alzai e abbattei due beccaccini di passo, lenti e prevedibili, che proprio per nulla fecero pensare alla “saetta alata”. Incarnierai anche una pavoncella che staccai da un piccolo voletto che mi passò sulla testa. Stanco, mi trascinai verso casa attraverso i campi. Mi era rimasta una sola cartuccia con pallini del 12. In un campetto di ravizzone (Brassica campestris L. var. Oleifera D.C. n.d.r.) mi schizzò fra i piedi un leprone. Tolsi il fucile dalla spalla e sparai. La lepre, colpita in pieno dalla scarica di pallini piccoli, iniziò a fare giri su sé stessa sempre più larghi tentando di fuggire. La inseguii a gran salti cercando di colpirla con il fucile scarico usato come clava… Finalmente riuscii a finirla e mi accasciai esausto a terra. I cacciatori del paese mi dissero che si trattava di quella famosa, maledetta lepre che da mesi faceva ammattire i segugisti locali. I cani la braccavano e poi, improvvisamente, spariva. Non credettero che fosse caduta con ignominia sotto una scarica di pallini del 12 in un prato e per giunta alzata senza l’ausilio di un cane.
Quando la faticosa giornata al Reggimento finiva e piombavo nel sonno, gli occhi si chiudevano sulla visione del lago, con il barchetto e i branchi di germani e di becchipiatti in genere che venivano bombardati con la spingarda, sulle saettanti volate dei beccaccini nella palude Brabbia o nel laghetto di Bardello, sui branchi di starne nei coltivi e nelle colline fin sulle sponde del Lago Maggiore, sul pa… pa… pa… ovattato delle beccacce alzate sul grande massiccio del Campo dei Fiori fino al fortino di Orino, a circa mille metri s.l.m. Compagni militari, amici per la pelle, furono tre o quattro cacciatori. Vissi alcuni sprazzi venatori nei sei mesi del corso quando, al campo di Marzabotto, divanuto poi tristemente celebre per la feroce rappresaglia nazista, inviato sui calanchi aggettanti sul fiume Reno a fare esercitazioni visive di alfabeto Morse, mi perdetti dietro un branchetto di starne, beccandomi sette giorni di camera di punizione. Ben sei anni doveva durare la mia avventura sotto le armi, in Africa, Albania, Italia, sempre al fronte, in prima linea. Ma in quegli anni non abbandonai mai il mio fedele Browning a cinque colpi, che mi fu accanto ovunque, concedendomi il piacere di vari sprazzi venatori.
Memorie di un cacciatore
Dalla culla ai 90: tutta caccia

Gli anni d’oro
di Adelio Ponce De Leon


Nel gennaio del 1931 veniva approvato il primo Testo Unico della caccia, che regolava l’esercizio dell’attività venatoria in tutta Italia. L’apertura e l’esercizio venivano comunicati con un manifesto nazionale valido per tutte le province. Con la sola licenza di caccia si poteva sparare dalle Alpi alla Calabria, alla Sicilia, alla Sardegna in piena libertà senza balzelli ad animali che venivano designati in due categorie: selvaggina nobile stanziale e migratoria con l’aggiunta dei nocivi. Andavano fieri i cacciatori che si dedicavano alla stanziale vantandosi eletti, distinti, elevati, nobili nei confronti degli uccellinai, dei vaganti, dei roccolai, dei capannisti, dei becchipiatti, dei migratoristi, considerati i paria della grande passione. Il nuovo Testo Unico creava anche la Zona Alpi, di difficile gestione tra le pretese dei montanari, gelosi del loro ambiente e della loro fauna, e quelle dei cittadini, che pretendevano uguaglianza di diritti.
Il ventennio che va dalla fine della prima guerra mondiale all’inizio della seconda rappresenta l’ultimo periodo aureo della caccia italiana. In terreno libero abbondavano starne e lepri, ultima progenie nostrana prima delle immissioni straniere, mentre non era ancora apparso in forma popolaresca il fagiano, sconosciuto anche nella maggior parte delle riserve, ripopolate di strane e lepri.
I reduci dal fronte, dopo la vittoria del 1918, si sentivano tutti guerrieri. Il fronte aveva abituato anche i più riottosi a maneggiare il fucile e non furono pochi coloro che chiesero la licenza di caccia per continuare a sentirsi guerrieri per il solo fatto di portare un’arma sopra la spalla.
Ho avuto la fortuna di vivere la mia gioventù durante questo favoloso periodo venatorio. Allora l’apertura il primo di agosto e la chiusura l’ultima domenica di aprile, senza interruzioni, con la possibilità di cacciare a seconda del tempo, del passo e dei vari sistemi di esercizio necessari ai diversi tipi di caccia. Li praticai tutti. Cominciavo ad agosto a quaglie e starne con il cane da ferma nelle campagne di Brebbia verso il lago Maggiore e sulle colline dell’Alto Verbano; non disdegnavo la caccia vagante alle tortore, ai merli e alle gazze, con scorribande fra i prati ai primi nugoli di allodole; partecipavo alle battute con i segugi sul monte ai piedi del paese, attento alle urla della canea, nella speranza che portasse la lepre verso il mio appostamento; in ottobre e per tutto novembre era la regina che mi affascinava sopra tutti i selvatici. Le beccacce arrivavano numerose sul grande massiccio del Campo dei Fiori, alle cui prime salite si trovava il paese; la regina saliva dalla piana, ove aveva pasturato durante la notte nei prati, per posarsi nei boschi della montagna, ove fra boschi di ogni specie di alberi, ma soprattutto nelle vallette umide e fresche trovava riposo e pastura diurna dalla fornitura di cibo prodotto dal terreno, con vermi, lombrichi, lumache e larve. Scarpinavo da mane a sera e avevo imparato a conoscere i luoghi ove ero certo di trovarla, perché sapevo che preferiva il sottobosco di frassini, castagni, faggi, ma soprattutto di robinie. Arrivavo anche in cima al monte, sui mille metri, ove scovavo uno dei pochi branchetti di coturnici, oggi scomparsi più che per lo sterminio della caccia, per la semina dei pini che hanno coperto i prati liberi e le pietraie ove la regina delle rocce amava cerleccare.
Dalla darsena in muratura, sulla sponda del lago vicinissimo alla casa avita, partivo per le mie scorribande lacustri con la barca o il barchetto da pesca, per raggiungere gli appostamenti nascosti nel folto dei canneti, oppure con la spingarda, per palettare su tutto l’ampio specchio d’acqua; dal lago raggiungevo le paludi della Brabbia o il laghetto di Bardello, per gustare il gnech saettante dei beccaccini.
Il giovedì e la domenica erano riservati alla riserva di Tradate, doviziosa di starne e lepri, con mio fratello e con mio padre, soci della concessione. La quota prevedeva per ogni uscita due lepri e tre starne per socio; mio fratello ed io camminavamo da mane a sera, fucile a bracciarm, con il risultato di ponderosi carnieri: sei lepri e nove starne per ogni uscita, perché completavamo la quota anche con i vuoti che avrebbe lasciato papà.
Nonna Adele cucinava una sola lepre all’anno, perché preferivamo i succulenti sughi di quaglie e beccaccini.
Il giorno dopo le battute, mio padre portava il grosso bottino di lepri e starne all’eden gastronomico di Varese, il lussuoso negozio che ammanniva cibi ricchi e rari sotto i portici della città giardino. Il compenso non era denaro, ma leccornie che per tutto l’anno trionfavano nella nostra mensa: caviale e aragoste, patè di uccelli, salse russe nordiche e tropicali, formaggi rari, salumi di gran pregio.
Ho avuto la ventura di vivere intensamente i vent’anni del periodo aureo della nostra caccia, affinando sistemi ed esperienze nella ricerca di migliorare sempre più, e devo a questa attività se sono diventato un cacciatore esperto e valente.
Orge di fatiche e riposi, di gioie e delusioni, di fucilate sempre più veloci e precise, di scarpinate nei coltivi e nei boschi della piana, di arrampicate sul grande monte che sovrastava il paese, di stivavate nelle paludi, di remate sulle barche e di palettate con la spingarda.
A 200 metri dalla casa avita il lago, la mia grande passione. Avevo cominciato a frequentarlo sulla riva a piedi nudi a pescare gobbini, arborelle e piccoli boccaloni e persici. Sulla riva, la grande darsena in muratura poteva contenere otto barche. Da lì partivo con il barchetto da pesca, remando in piedi con la vista sulla punta per raggiungere i vari appostamenti da me costruiti in mezzo ai canneti, per nasconderli ai becchipiatti in volo o in rimessa davanti agli stampi. Nei mesi invernali, ottimi per il passo, partivo sulla spingarda a palettare disteso supino sul fondo, tra nebbie e gelo, per avvicinare germani, alzavole, fischioni, codoni e morette, posati nel centro del lago. Con la barca remavo per ore per la lunga distanza dalla palude Brabbia, ove non andavi mai senza sparare almeno dieci fucilate tra palmipedi, trampolieri e beccaccini. Avevo il palmo delle mani, sotto le dita, con giganti duroni prodotti dai manici dei remi. Ci vollero anni perché scomparissero.
Non disertai la pedana del tiro al piattello, già campioncino a 16 anni. Non dimenticherò mai la prima gara al Kursaal di Varese, quando mio padre ed io arrivammo allo spareggio per la vittoria. Sparai e colpii il piattello, sparò mio padre e visibilmente padellò il bersaglio e il primo premio; ero felice e commosso, ma più commosso era lui, che mi aveva laureato tiratore eccellente.
La pedana in seguito mi diede notevoli successi. Nel campionato nazionale al piattello tra le 92 squadre provinciali composte da tre tiratori, che si disputava a Brescia, vinsi il titolo con Guglielmo Mozzino e Aldo Scioccati, davanti alla forte squadra bresciana, che annoverava Carlino Beretta e Dodo Manfredi, campioni di quel tempo.
Nella nostra squadra, Scioccati era stato sostituito da Dino Guerra, pilota decorato della guerra d’Africa contro l’Etiopia e di Spagna con i fanchisti, personaggio esuberante, scanzonato, gaudente. La sera prima della gara, Dino ci aveva portato alla Torre Azzurra, un ritrovo di lusso. Eravamo usciti alle quattro del mattino, vittime dei sorrisi e delle coppe di champagne offerte dalle compiacenti entreneuse. Andammo in pedana con i pronostici unanimi degli avversari e del pubblico a favore della nostra vittoria, come l’anno prima. Ma non fu così. Su 96 province (perché ne erano state aggiunte quattro della quarta sponda libica) ci classificammo ultimi. Arrivati in pedana, a stento fermi sulle gambe, Dino al piattello di destra sparava a sinistra, io su un piattello basso sparavo alto. Solo Guglielmo, da signore, sparava dritto. Finì tra meraviglia, applausi di derisione e soprattutto fischi. Al ritorno a Varese fummo convocati dal Federale, furente, che ci minacciò di gravi sanzioni e vietò ogni pratica sportiva per un anno, decisione gravissima se si pensa che lo sport giovanile era l’attività principe del regime.
La bella avventura giovanile a caccia finiva nel 1939, quando a maggio varcai il cancello del IV Reggimento Carristi di Bologna per il servizio militare, che durò fino al 1945 in vari fronti, sempre in prima linea.
Memorie di un cacciatore

Dalla culla ai 90: tutta caccia

Il noviziato

Ho avuto la fortuna di nascere in un paese delle Prealpi lombarde, tra laghetti e paludi, pianure, colline e monti, in un ambiente che pareva creato per gli amanti dell’acqua, dei boschi, dei prati, delle abetaie e delle pietraie. Un paese che si trova sulla sponda di un lago, alle falde del massiccio montano del Campo dei Fiori. Nato in un palazzo antico, dotato di un immenso parco dove trovavano posto un canile capace di ospitare dieci cani, una voliera gigante con all’interno un grosso faggio, che dava l’illusione e la possibilità agli uccelli di vivere come in libertà, un orto con ogni varietà di prodotti per la cucina, un frutteto ricco di ogni tipo di pianta da frutta e un giardino con fiori e alberi do ogni tipo; questo parco ha avuto il merito di insegnarmi a conoscere e ad amare il mondo vegetale in ogni momento del suo sviluppo stagionale.

Il mio lago!
Il mio lago distava trecento metri dal palazzo; sulla riva, vicino ad un canale che portava verso il largo, c’era una darsena, una grande costruzione che poteva contenere dieci barche, e sul cui frontespizio troneggiava una grande lastra di granito che arrivava a cinque metri sopra il livello delle acque; su questa lastra erano presenti, dalla parte che si affacciava sul lago, i livelli scolpiti delle varie piene che avevano interessato il lago nel corso degli anni. L’aveva acquistata mio padre dal nobile Maggioni, che l’aveva a sua volta ereditata dal marchese Litta, allora proprietario delle acque del lago. All’interno della darsena c’era quella che io chiamavo “la mia flotta”: il sandalino ad un remo a due pale per le scorribande estive di fronte al lido, ma usato anche nelle giornate caratterizzate da forti temporali, quando le rive erano deserte (anche dai guardia pesca...), per gettare in acqua palline di polenta miscelata con bacche di coccolo pestate in un mortaio, vera droga per i pesci, che, ingoiandole, rimanevano storditi per almeno una mezzora, durante la quale nuotavano pigramente a pelo d’acqua. Li inseguivo con il veloce sandalino e li prendevo, in grandi quantità, con un capiente retino. Un bracconaggio giovanile, reato da tempo estinto per “decorrenza termini”; c’era poi il vecchio barchetto da pesca che si faceva avanzare remando in piedi sulla poppa, con la prua che si alzava di circa mezzo metro sopra il livello dell’acqua, cosa che consentiva di penetrare nei canneti che per chilometri bordavano le rive e che serviva anche come appostamento fisso ovunque, perché le alte canneggiole lo nascondevano ai selvatici in volo e in planata sul gioco di stampi; poi c’era la barca padronale, che avevo battezzato Callipigia per la sua poppa tondeggiante e per un gioco di pazzia goliardica; infine c’era il barchetto con la spingarda, il mio gioiello per la caccia ai becchi piatti, in antagonismo con le altre sei spingarde sempre in lotta fra loro per arrivare per primi a tiro alle anatre posate.

La spingarda
Rivivo i momenti frenetici che si susseguivano quando iniziava l’emozionante avvicinamento ai branchi di anatre posate sulle acque del lago. L’accostamento lo effettuavo sdraiato supino sul fondo del barchetto, con il viso rivolto alla punta e gli occhi incollati al mirino presente alla base del lungo cannone, le gambe e i piedi sulle pedivelle per azionare le palette che davano forza propulsiva sott’acqua, in modo da non provocare onde che avrebbero insospettito i selvatici, con l’automatico usato per ribattere gli uccelli feriti disteso a fianco al corpo; occhi sul mirino e dito sul grilletto della spingarda per sparare al momento giusto, il tuono della potente cannonata che squarcia la quiete del lago, la visione del risultato buono o cattivo del tiro. Emozioni forti, frenesie intense che solo lo spingardista ha assaporato.

Un posto da favola
Il paese sulle rive di un ampio lago, dove sono tuttora presenti vestigia di antiche palafitte, un fiume ai suoi confini, una pianura ubertosa, con vigneti e colture varie ai piedi di un grande massiccio montano che arrivava ai mille metri s.l.m. appagavano il cacciatore e soddisfacevano qualsiasi esigenza venatoria. La selvaggina stanziale, lepre in testa, era abbondante e la migratoria silvana e palustre nelle vicine paludi della Brabbia e del laghetto alimentavano qualsiasi tipo di caccia. Lungo le sponde del fiume Bardello, emissario del lago, i rallidi, per la maggior parte gallinelle d’acqua e porciglioni, facevano impazzire i cani, insieme ai palmipedi feriti che si rifugiavano nello sporco delle sponde dopo le sparatorie effettuate sul lago. Sul fondo sabbioso del fiume si pescavano con il guadino a maglia fine le uselline (i cobiti, Cobitis taenia) le esche preferite dai persici reali insidiati con la tecnica della tirlindana. Nei giorni di grande passo e ripasso le paludi di Bardello e della Brabbia venivano scosse da coppiole e da scariche di automatici, mentre i cinofili non davano tregua al re dell’acquitrino, il beccaccino. Ad esso facevano da corona palmipedi, trampolieri e rallidi. Barchetti, tese, appostamenti erano sempre occupati dall’alba al tramonto e in alcune giornate anche di notte.

Una grande varietà di animali
Sovrastavano il paese le colline della Motta d’Oro, del Careg e del Caldé, insidiate dai boschi di robinie, che preparano un sottobosco pulito e vermicoloso, che sembra fatto apposta per invitare la beccaccia alla sosta diurna. Verso il lago Maggiore si estendeva una pianura opulenta di coltivazioni, principalmente frumento e granturco, inframmezzate da vigne e prati; ricordo i branchi di starne, un tempo numerose, che razzolavano alla ricerca di cibo. Nella piana echeggiava sopra tutto il richiamo delle quaglie che attendevano di deporre le uova nel nido; canti che, appena nati i piccoli, si accompagnavano ai trilli delle allodole di passo e stanziali. Le lepri, ovunque presenti nei boschi e nei coltivi, vivevano nell’angoscia dell’apparizione del loro terribile nemico, il segugio, il cane più allevato nella zona. Su per le acciottolate, ripide stradette che dai Caldé vanno su verso il forte di Orino, la canea correva lungo le vallate più in fretta delle gambe dei segugisti che si affannavano per arrivare prima della lepre al crocicchio letale. All’altezza del Forte (situato a circa mille metri s.l.m.) che strapiomba in Valcuvia, costruito dai soldati durante la prima guerra mondiale nel timore che gli austriaci passassero dalla Svizzera per attaccare l’Italia, si contavano ogni anno dai tre ai quattro branchi di coturnici. Vivevano tra la cime del Forte e la punta delle Tre Croci, prima che un intenso rimboschimento di pini togliesse alle regine delle rocce l’habitat indispensabile per vivere. Cesene, tordi, merli e tutti i migratori minori sceglievano per il loro percorso migratorio la corrente che passava per il paese, dove abbondavano roccoli, capanni e appostamenti fissi.
Non v’era che la scelta del selvatico e di come cacciarlo.

Una conoscenza capillare
Del mio lago, della mia terra, fin dai tempi della fanciullezza e prima che avessi un fucile fra le mani, conoscevo ogni anfratto e ogni zolla, così come conoscevo ogni rifugio preferito dalle lepri e ogni nascondiglio delle starne, dal momento che queste e quelle si riproducevano sempre negli stessi luoghi. Così come conoscevo gli specchi preferiti dalle marzaiole, dai germani e dalle folaghe e mi era noto ogni fazzoletto di palude ove il beccaccino era sempre in pastura.
Amavo il mio paese quasi carnalmente, l’amavo per i suoi colori, verde pallido in primavera, scuro in autunno e grigio e bianco d’inverno e per il suo volto sempre nuovo e pur sempre uguale. Era la terra del grano, dei bei campi sempre curati, erano le acque delle ninfee gialle e bianche, dei canneti folti e impenetrabili.
In quei luoghi aveva inizio la mia avventura che doveva durare per tanti anni, con un noviziato consumato in ogni genere di caccia: cominciava quando ancora era notte, nelle tese, poi nei fossi, nelle pianure e nei boschi. Insettivori e granivori con le panie vaganti e la civetta, poi allodole, merli, tordi e storni nelle deambulazioni vaganti, insieme a tortore e colombacci, quaglie con il cane da ferma, lepri con i segugi, becchi piatti sul lago e in palude, con nitticore, tarabusi e aironi, gallinelle, porciglioni, schiribille e folaghe, i così detti uccelli neri, che fanno ammattire i cani. Divenni malato del fascino della distesa delle acque cinte da esili canneti e da tagliente falasco. Il remare, il camminare e la fatica erano per me leggeri. Il mio più grande cruccio era rappresentato dall’arrivo del giorno della chiusura, quando avrei dovuto appendere il fucile alla rastrelliera mentre le buffate di uccelli nuovi erano ancora numerose e i becchi piatti mi avrebbero offerto nuove occasioni. Un noviziato pieno il mio, che completava il detto che cacciatori si nasce, aggiungendovi che cacciatori (anche) si diviene.
Memorie di un cacciatore
Dalla culla ai 90: tutta caccia
Il fascino del paese

di Adelio Ponce De Leon


Agli inizi degli anni Trenta attendevo con impazienza il giorno in cui avrei potuto cacciare con il beneplacito della licenza di caccia. Frequentavo il primo corso del liceo classico di Varese quando, il 26 gennaio del 1931, compii 16 anni. Era giovedì e a mezzogiorno, a tavola, sotto il piatto trovai la licenza, rilasciatami con il consenso paterno. I miei occhi, incontrandosi con quelli di papà, luccicavano come i suoi. Papà viveva la commozione di tramandare a me il culto della caccia venerato da secoli in famiglia. Promisi di non essere indegno di tanta tradizione.
Abitavamo a Varese. Appena riuscii a scattare dalla sedia inforcai la bicicletta da corsa e via di volata nonostante il gelo, giù per la discesa del Sasso fino al paese, nella casa avita, ove arrivai assiderato. Ma dentro ero caldo e pieno di bramosia cacciatoresca. Nonna Adele, custode della casa, rabbrividì vedendomi staccare dalla rastrelliera il pesante automatico, appesantirmi di cartucce e calzare, non avendo gli stivali, gli scarponi da montagna.

Il primo beccaccino
A quei tempi, di gennaio, la caccia era permessa ovunque. Ora mi sentivo padrone delle pianure, dei boschi, della palude. Miei erano i canneti rinsecchiti dal gelo invernale, le acque gelide e immote, i selvatici del falasco. La palude era quasi tutta gelata e, nonostante procedessi a passi leggeri, gli scarponi scricchiolavano sui ghiacci tra i ciuffi. Ma ero nel laghetto di Bardello ove mio padre diceva che non lo si batteva senza sparare almeno una fucilata.
Ogni tanto la patina di ghiaccio si spezzava. Subito piedi e gambe divenivano violacei, ma l’eccitazione e il movimento mi davano calore. Procedevo a zig zag attento e silenzioso con il fucile imbracciato pronto al tiro. Qua e là fra la vegetazione palustre predominava il muschio fra spiazzi accarezzati dal tenue sole. Solamente nei luoghi privi di ghiaccio ove predominava la torba, avrei potuto trovare il re dell’acquitrino. Sapevo che pochi beccaccini indugiavano ancora nonostante il gelo nella palude, i così detti pasturoni che non erano migrati verso i Paesi caldi. Erano già stati sparati nella stagione autunnale e perciò erano smaliziatissimi.
Uscendo da un canneto mi affaccio alla radura costeggiante le acque del piccolo lago. Non è ancora spenta l’eco di un improvviso gnech che tre o quattro beccaccini volano già alti verso il cielo e il boato serrato del mio automatico scuote il silenzio della palude. Le saette alate fuggono nel cielo sempre più alte, mentre impreco contro la mia precipitazione. Ma accade l’imprevisto. Un beccaccino rallenta, sbatte le ali e poi cade in picchiata come uno straccio accompagnato dal mio grido di gioia.
Solamente chi ha cacciato in palude senza cane sa che cosa vuol dire ricercare un selvatico abbattuto a più di cento metri. A occhi fissi, senza un battito di palpebra, percorro a balzi la distanza fissando un cespuglietto più alto, poi per terra, nel punto presunto di caduta, metto un cappello sul cespuglietto memorizzato. Man mano che il tempo passava mi veniva da piangere. Quasi annottava quando lo intravidi stecchito, seminascosto dalle erbe.
Padrone del mondo e del primo beccaccino della mia vita non mi accorsi delle sferzate di un forte vento di tramontana che accompagnava le mie intirizzite pedalate verso il paese.
Prima di andare a dormire, riempii la pagina “uno” del mio diario di caccia, che ho tenuto aggiornato fino a oggi.

A febbraio
A febbraio, spesso mi levavo dal letto due ore prima dell’alba, percorrendo con temperature glaciali oltre dieci chilometri per arrivare sulle rive del lago, ove mi aspettava il Giol per le battute con la spingarda. Niei periodi di gran passo cacciavo anche nei giorni di scuola, attento a rientrare per essere puntuale alle lezioni delle nove.
Ricorderò sempre il primo colpo di spingarda. Alle prime luci dell’alba, tre marzaiole nuotavano in mezzo agli “stelloni”. Lino mi dava le istruzioni mentre palettava: “attento a non uccidere i richiami. Aspetta un momento che si mettano da parte. Mira un poco in alto. Attenzione. Spara”. Il boato mi fece chiudere gli occhi. Quando li aprii non vidi che una nube di polvere dinnanzi al barchetto. Poi, a poco a poco, distinsi sull’acqua le tre marzaiole pancia all’aria in mezzo ai richiami miracolosamente incolumi.
La caccia con la spingarda era sicuramente di carniere, ma non la si poteva dire di comodità. Infiniti sono i preparativi: dal barchino al cannone, dalla scelta delle cariche al posizionamento delle anatre con corde e mattoni, dall’attrezzatura del cacciatore solo e con il compagno. I cacciatori di pianura e di montagna hanno i cani che si meritano, il cacciatore di spingarda aveva i richiami e le anitre che si meritava.
Quando l’Angiol, l’anziano spingardista del lago, mi iniziò alle battute, per me le anatre grosse erano germani, le piccole tutte garganelli. Più tardi distinsi al volo e al canto germani, fischioni, codoni, alzavole, marzaiole, morette e tutta la serie delle meno conosciute.
Il modo di disporre i richiami vivi e gli stampi aveva grande importanza perché risultassero efficaci zimbelli. Sarebbe stata nulla una femmina che aveva un compagno vicino, in quanto il maschio libero avrebbe indigiato su una femmina legata. La femmina con il maschio vicino non canta, ma emette un cigolìo udibile dai selvatici solo al mattino, quando è ancora buio.
Ora la caccia con la spingarda è stata proibita e gli insegnamenti sopradescritti mi sono stati utili nelle botti delle varie valli venete e soprattutto a Karlovac, in Croazia, quando ebbi la concessione per mettere venti botti in sei vasti laghi artificiali.

La primavera
Venne anche la primavera. Le lodole presero a salire in alto nel cielo, riempiendo dei loro trilli la pianura; poi arrivarono i colombacci, i tordi e i beccaccini.
Tutto quello che avevo sognato andava avverandosi e potevo deambulare solo con il fucile nel mondo della natura dimentico di ogni altra cosa.
Mezza giornata di pioggerellina fitta fitta era sufficiente a risvegliare la pianura e a ridare vigore a tutto. Rinverdivano le spianate, le campagne e i boschi; le prime punte di cacceggiole fiorivano. Risuonavano le mille voci della palude; versi di uccelli dal becco gentile e granivori, di rane e rospi, di topi e di tutti gli abitanti della natura.
Arrivavano finalmente i giorni del grande passo.
Non mancai di dedicarmi alla caccia alla lepre seguendo i segugisti su per l’aspra montagna del Campo dei Fiori, attento a conoscere quando la canea spingeva la lepre verso di me.
Sal Sasso la visione in un unico quadro di cinque laghi, il Varese, il Bardello, il Varano, il Monate e il Verbano, il tutto protetto da lontano dal massiccio del Monte Rosa cangiante di colori dall’alba al tramonto.
Di questo amore per il paese ebbi sentore ogni voltra che ne fui allontanato, rimarginandosi la ferita solo al ritorno.

Nostalgia inconsolabile
Giovinetto fui mandato in collegio. Aggrappato alle inferriate, appollaiato su un costone della Valle Olona, miravo per ore nella foschia la cima del Campo dei Fiori che digradava verso i Caldé e la Motta d’Oro. Sotto vi era il paese che vedevo con gli occhi della mente.
Da militare, le vicende belliche mi portarono per anni nel deserto del Sahara. Nelle notti umide o infuocate sognavo sempre il paese.
Uomo fatto, gli impegni della professione mi fecero trasferire nella metropoli (Milano).
Ma il paese è sempre là. Appena ritorno è festa per il mio cuore malato di nostalgia delle cose che non torneranno più.
Ora è uno scempio: strade, case, ville, stabilimenti, una giungla di mattoni ha invaso i miei campi, sradicato i boschi, i canneti sono stati divelti, la palude bonificata, le acque del lago, un giorno tranquille e baciate solamente dai remi cautamente immersi nell’acqua, sono imputridite dagli scarichi di stabilimenti e di tintorie, e sconvolte dai rumori dei motoscafi e dalle eliche impazzite.
Ma il monte è salvo, sempre come allora, senza strade e senza case, protetto come oasi, salvi i boschi di robinie, noccioli, castagni, frassini, faggi e betulle.
Quando voglio un po’ di serenità, mi arrampico fino alla Val Sara, ove mi attende il frullo di una beccaccia non più insidiata dai fucili.
Memorie di un cacciatore
Dalla culla ai 90: tutta caccia
La giovinezza

di Adelio Ponce De Leon


Avevo ancora i pantaloni corti e già seguivo nelle battute di cacciatori locali.

Facevo lo schiavetto al Turin Balum (Ettore il pallonaio), uccellatore con la civetta sul paletto, alla metà del quale era infissa una gabbietta circolare con un foro centrale da richiamo per i primi catturati della giornata. Turin portava la sacca con le panie. Lo aiutavo a tirar fuori dalla panie le bacchette, smaliziato nel rotearle e nel rendere uniforme la patina di vischio. Sapevo che bisognava bagnare con la saliva le dita prima di toccare le bacchette per impedire l’appiccicamento del vischio.
Il giro venatorio era quasi sempre il medesimo come le località ove impiantare il tranello per gli uccelletti dal becco gentile. Sapevo come pulire i rami dei cespugli e come mettere in posizione le bacchette. Avevo imparato a imitare il sibilìo del pettirosso, il canto delle cincie, dei codibugnoli, dei basettini e dei saltimpali. Ero fiero della collana di fischi che mi pendeva sul petto.
Il Turin era stato punito da madre natura proprio nel senso indispensabile per udire e richiamare gli uccelli; era sordo come dieci talpe, ma era tenace. Gli ero utilissimo per segnalargli gli uccelli che si avvicinavano cantando, mostrandogli il fischietto adatto. Quando era solo, prima di richiamare un uccello doveva vederlo. Spesso chiamava cincie quando cantavano pettirossi e viceversa.
Rivedo quando si appiccicava un codibugnolo alla bacchetta; in un attimo veniva seguito da tutti gli altri che erano in gruppo con lui. Ho provato a staccarne dieci dallo stesso rametto, che si erano appiccicati in cinque minuti.
Seguivo pure un altro uccellatore, Attilio Crespi, fanatico per la caccia alle allodole con la civetta. Mi caricava sul seggiolino posteriore di una vecchia Indian 2000, un bolide rosso sgangherato, affidandomi civetta e paletto. E via, via a folle rumorosità sulle polverose strade del primo dopoguerra ancora ignare dell’asfalto.
Quando la Indian del Crespi attraverso i paesi rotolava, pareva arrivasse il terremoto. Attilio, piccolo e mingherlino, stava avvinto al manubrio dell’immensa moto e nessuno riusciva a capire come, così minuto, riuscisse a tenere l’equilibrio. Aveva il viso adunco da sparviero, l’occhio di faina e nessun ostacolo lo frenava. Le madri nei paeselli lo additavano ai bambini come “il diavolo”. Preferiva la palude del laghetto dove, tagliate le lische del falasco, il terreno paludoso diveniva un prato semiallagato ricco di semi e insetti, in cui spiccavano i cumoli delle erbe tagliate, messe in mucchio a rinsecchire. Riparato dietro un grosso covone, Attilio piantava la civetta a venti metri, tenendo le spalle al sole; allodole e pispole sembravano incantate dai suoi fischi e svolazzavano a giocare con la civetta. Sparava numerosi colpi. Il mio compito consisteva nel segnalare dove cadevano gli uccelli colpiti. Guai se non li raccoglievo tutti. Gli ero di tanto aiuto che Attilio che rinunciava alla caccia se il parentado non mi dava il permesso di andare con lui.
Per me era un giorno di festa quando convincevo papà a portarmi a uccellare nei dintorni del paese, giù fino al lago e al fiume, negli afosi pomeriggi di fine estate. Non gli davo requie, tormentandogli la pennichella che si concedeva dopo il pranzo durante la stagione calda. Merli, averle, storni erano le prede ambite, ma non un solo uccelletto capitava a tiro senza prendere la sua dose di pallini, tanto più che a quei tempi non erano vietati i minori dal becco gentile.

Nell’ampia cacciatora di papà…

… prendeva posto il calibro 28, pieghevole con il calcio solamente sagomato e svuotato per leggerezza e per attuire il rinculo. Ci appostavamo sotto un grosso fico o lungo i filari di vite e quando potevo imbracciare il 28 mi sentivo padrone del mondo. Con il fucile a carico ridotto ho fatto mirabilia al fermo e al volo, ma il tiro memorabile fu di mio fratello.
Cacciavamo merli lungo le ripe. Io seguivo mio fratello, che imbracciava il 28, con un bastone per battere i cespugli; un frullo, un colpo, un urlo. Fustachio corre e raccoglie da terra la preda morta. La guarda e grida “la beccaccia, la beccaccia”.
Seguivo mio padre alla caccia con il cane da ferma anche quando mi stancavo da scoppiare e mi divertivo meno che andando a uccellare. Ma i pochi attimi di ebrezza quando i cani incontravano, compensavano la fatica. Era una dura fatica tenere dietro a mio padre che, tra l’altro, era di una tenacia impressionante. Ricordo le paure che mi assalivano quando mi abbandonava solo sulle stridette, mentre “faceva” un bosco o una collinetta.
Un pomeriggio d’autunno, mentre lo accompagnavo al Mottarozzo, un cocuzzolo boschivo che sovrastava la palude di Bardello, Febo, bracco italiano, levò una beccaccia che si rimise sul lato nord del cocuzzolo ,senza che il papà riuscisse a separarle. In breve, quella beccaccia smaliziata frullò almeno altre tre volte, sfuggendo a due scariche della doppietta paterna e mettendosi sempre tra i noccioli o le robinie del Mottarozzo. Non avendo più la forza di seguire la battuta, fui lasciato solo alla base del bosco, su una strada verso la palude; imbruniva, l’umidità cominciava a penetrarmi negli abiti, le zanzare mi punzecchiavano senza sosta e non sapevo più dove si trovavano papà e il cane. Solo e ottenebrato di stanchezza, temevo di essere stato abbandonato sull’orlo della palude.
Tra le doti di papà a caccia predominava la cocciutaggine. L’oscurità incipiente rendeva quasi impossibile la mira, ma continuava a brancolare nel bosco imprecando alla “maledetta“ che era stata così astuta nel sottrarsi al cane e ai pallini del fucile.
Intanto il gracidare sempre più forte delle rane e dei rospi cancellava la mia pavida voce di richiamo. Ebbi paura anche della mia stessa voce. Annottava. Pieno di freddo e di paura, cominciai a piangere.
Improvvisamente una scarica, “pam… pam”, e un grosso uccello mi passò a due metri sopra la testa, sfarfallò e, superatomi, si buttò in un boschetto di pochi metri quadrati sull’orlo della palude.
Nello stesso momento si catapultò fuori dal bosco, nero di rabbia, mio padre, imprecando per l’ultima padella e contro di me, quando mi vide con le lacrime agli occhi.
“Che razza di uomo sarai se hai paura di stare solo cinque minuti su una stradetta… L’hai vista? Veniva dalla tua parte”.
“Sì, è passata sulla mia testa e si è messa in quel boschetto lì, sull’ orlo del laghetto”.
“Impossibile! Non ho mai visto una beccaccia lasciare il Mottarozzo”.
“Ti dico che aveva il becco lungo”.

Quasi non ci si vedeva più e papà, incredulo, si diresse verso il boschetto. Febo, che lo precedeva, entrò nel folto e un attimo dopo la beccaccia frullò, volando verso papà nel tentativo di ritornare al Mottarozzo. Un tiro facile e finalmente la beccaccia cadde.
“La maiala” urlò mio padre. “Mi hai fatto morire, ma ti ho presa”.
Avevo dieci anni e per la prima volta toccai la beccaccia ancora calda.