C’erano due pacchi; uno pieno di una strana polvere bianca e l’altro zeppo di soldi. Rimase terrorizzato. Quelle canaglie erano due trafficanti, oltre a fare il doppio lavoro da sicari. Ritornò altre volte all’albero cavo e non trovò più qualcuno, così, in un periodo di ristrettezze, decise di recuperare lui il pacco dei soldi. Si recò all’albero, ma proprio quando mancavano poche decine di metri dal luogo si accorse che c’era qualcuno. I due individui erano lì che confabulavano animatamente, finché ci fu una colluttazione, si udirono due spari quasi all’unisono e poi cadde il silenzio. Con il sudore che grondava, nonostante il freschetto della sera, Pizzente si levò pian piano e si sporse oltre i ciuffi di un arbusto, fino a che non vide la scena. I due delinquenti giacevano sul terreno, secchi come il sughero, fulminati dalle rispettive schioppettate e vicino a loro due grossi pacchi stavano in bella vista. Con cautela si avvicinò, osservò tutto, prelevò il pacco con i soldi da terra e poi sottrasse i due pacchi dal cavo dell’albero. Ritirò anche il secondo pacco con il denaro e buttò quello con la polvere, a fianco dei due criminali. Una telefonata anonima avvertì le guardie che c’erano due cadaveri in campagna e quando i militari furono sul posto e trovarono i due pacchi, vicino a quei figuri, pensarono subito che i due tizi si fossero uccisi a vicenda per contrasti sulla divisione della merce. Pizzente lasciò perdere l’albero cavo e da quella volta smise di andare in campagna di notte, ma il segreto lo tormentava. Una mattina, mentre lui e Baingio riposavano seduti su una roccia, dopo una faticosa scarpinata, guardò l’amico negli occhi e gli raccontò tutto. Quello rimase gelato. Incominciò a piangere e pensò all’inutile fine di quei tipi ed al destino infame che aveva colto lui e il suo figliolo. Poi rifletté sull’accaduto e pensò ai soldi ed a Pizzente e convenne almeno che nonostante un male così orrendo era scaturito un bene, per una famiglia in ristrettezze come quella dell’amico. “Io faccio il mestiere che faccio”, disse all’amico, asciugandosi gli occhi, “ma, la mia coscienza mi dice che hai fatto bene a tenere quei soldi. Erano soldi maledetti e lasciarli a loro non sarebbe servito a nulla, mentre permetteranno a te ed ai tuoi di vivere una vita decorosa, e, in fin dei conti , così non dovremmo più andare a caccia con la paura che qualcuno ti cerchi per le tue scorribande notturne…”. Pizzente lo guardò con un sorriso che andava da un orecchio all’altro e gli occhi lucidi nel vedere la gioia riflessa negli occhi dell’amico e disse: ”Caro avvocato, hai ragione, d’altronde non ho più l’età per portare a spalla un cinghiale e correre con le guardie appresso. Preferisco fare tutto in regola e cacciare alla luce del giorno. Ma, adesso, cosa vogliamo fare? Ci fermiamo ancora a trastullarci come due smidollati cittadini o vogliamo cercare quel volo di pernici che ho <segnalato> la scorsa settimana?”. E si rialzarono, più leggeri, ma con il cuore gonfio, pensando a quelle disgrazie e guardando avanti, verso l’orizzonte, dove il confine tra le stoppie e la macchia <segnalava> la frontiera del loro immediato futuro.
Autore: Luca Davide Enna
leggeri e veloci, come trasportati da un mezzo invisibile. Fecero lunghi giri alla ricerca degli effluvi, poi, ad un tratto Duck rallentò la corsa e scattò in ferma. Lampo, che arrivava al gran galoppo, puntò le zampe, diede una brusca rallentata e di scatto si mise in ferma, di consenso al padre. Vedere quei due piccoli cani, immobili come statue, con le zampe nell’acqua della marcita, fissi sull’obiettivo, era uno spettacolo unico per i padroni. I due ausiliari erano perfettamente sincronizzati. Duck, d’autorità teneva la ferma sul selvatico e Lampo, per non rovinare la fatica del padre stava immobile a diversi metri di distanza, aspirando con forza l’aria e fissando la direzione di provenienza dell’emanazione. Alcibiade e Carletto si avvicinarono circospetti , cercando di non sfiorare nemmeno le piante immerse nell’acqua, per fare meno rumore possibile. Arrivati a ridosso dei due cani decisero che era ora di provare a concludere a fecero un mezzo passo in più. A quel punto due dardi partirono sfrecciando verso l’alto in un turbinio di giravolte. Alcibiade che sapeva il fatto suo, indirizzò la Breda e colpì, prima il più lontano e immediatamente il più vicino. I cani scattarono all’unisono, ciascuno per suo conto e, di lì a poco, rientrarono, ognuno tenendo un fagotto che penzolava dalla bocca. Alcibiade era contento per la coppiola e Carletto era felice per il primo riporto di Lampo. Arrivati vicino, i due Breton deposero le loro prede, ma solo nelle mani dei legittimi proprietari. L’omino si volse verso il bimbo e gli disse : “Se non avessi visto io questa scena, avrei avuto difficoltà a credere che fosse vera. Duck è un gran campione ma questo cucciolone sembra aver preso il suo sangue ed il suo carattere. Non mi sbaglio se ti dico che diventerà anche lui un grandissimo cane da ferma per i beccaccini, non foss’altro per il suo padre e maestro e, in definitiva, anche grazie al suo giovane addestratore “. Carletto era chino verso il cane che gli leccava il viso e gli faceva le feste. Quello spettacolo l’aveva lasciato estasiato e non smetteva di accarezzare e lodare il suo magnifico ausiliare. Finiti i convenevoli ripartirono in silenzio con lo sciaquettìo dell’acqua che ritmava i loro passi cadenzati e si confondeva con i guazzi prepotenti dei due cani che, nel frattempo, avevano ripreso in pieno la loro attività. Giunti sul limitare di una pozza larga e profonda , circondata da cannicciole da un lato ed ornata dall’altro da una breve siepe di tamerici avvolte da rovi, videro che i cani arrivavano circospetti e poi si bloccavano contemporaneamente, come in catalessi. Di lì a poco cinque grassi germani si levarono pigri ed in colonna dall’acqua tranquilla e Alcibiade riuscì a bissare la coppiola precedente facendo saltare di gioia Carletto che non smetteva più di esultare e poi di abbracciare Lampo che ritornava, assieme a Duck, con un grosso fardello tra le fauci. I due Breton lavorarono così per tutto il giorno ed al rientro il carniere era più che mai pingue. Alcibiade era felice per l’andamento della giornata e per aver trovato un allievo così entusiasta e Carletto, dal canto suo, fantasticava mille altre avventure e chiedeva una quantità sorprendente di chiarimenti al maestro di caccia. Rientrando sedettero, per riposare un attimo, su un gruppo di pietre vicino ad un grosso albero e guardarono nuovamente il panorama. Tutt’intorno le pozze brulicavano di vita e gli abitanti di quei luoghi, sebbene stanchi e provati per il giorno trascorso , erano in piena frenesia per la ricerca di un giaciglio o per individuare il luogo per il pasto notturno. Alcibiade pensò al suo lavoro e raccontò i sacrifici fatti, ogni giorno, per tirare avanti e per continuare ad inseguire la sua passione e Carletto gli assicurò che avrebbe fatto di tutto per aiutarlo, quando sarebbe diventato più grande. Gli anni corsero veloci e le stagioni si susseguirono in un turbinio di vicende ed emozioni. Molte nuove albe videro assieme il vecchio ed il ragazzo e nel frattempo Carletto crebbe ed iniziò ad affiancare il padre negli affari. La ditta prosperava ed intanto gli acciacchi del tempo si facevano sentire nell’omino del ghiaccio, a causa dell’umido e del gelo assorbito per tanti anni. Un brutto giorno Alcibiade comunicò a Carletto che non poteva recarsi con lui a caccia la domenica dell’apertura, perché il lavoro era diminuito e non aveva nemmeno i soldi per comprarsi il cibo per lui, Duck e la vecchia Brumilde. Lo disse con gli occhi umidi di lacrime e con parole pesanti come blocchi di pietra. Carletto lo guardò commosso ed anche divertito e disse: ” So bene che ora che son cresciuto ti vuoi liberare di me, ma non ti sarà così facile. Abbiamo passato l’estate, senza dirti nulla, per aggiustare la casa del fattore giù al podere nuovo e, siccome c’è -la casa del fattore-, ma non abbiamo il –fattore-, abbiamo anche stabilito di assumerti a paga fissa per condurre il podere, così Duck avrà di che scorazzare e Brumilde potrà galoppare per distendere i muscoli e mangiare un pò di buona melica, al posto del fienaccio secco che gli propini tu ogni giorno”. Alcibiade rimase senza parole e non sapeva cosa rispondere. Guardò Carletto e disse :” Come farò a compensarvi?”. E quello di rimando” Non pensare come farai tu, pensa invece come farò io a compensarti per le cose che mi hai insegnato, per gli anni che hai impegnato a spiegarmele e per il dono che mi facesti il giorno che mi regalasti Lampo”. Il giorno dell’apertura Carletto arrivò al podere nuovo che era ancora buio e vide la luce accesa. Si avvicinò. La porta era aperta ed una grossa scodella di caffelatte fumava su un capo della tavola, mentre dall’altro capo Alcibiade era intento a gettare grossi pezzi di pane nella sua tazza. Duck venne incontro al giovanotto e gli fece le feste. I segni del pelo biancastro sulle sopracciglia e sul muso indicavano un’ età gloriosa per un cane da caccia, ma la volontà era quella dei vecchi tempi. Dopo colazione si alzarono e presero la via del grande acquitrino . Quando arrivarono sul posto il sole già occhieggiava sul limitare dell’orizzonte e la nebbiolina tirata su dal caldo della notte saliva lentamente in alto tracciando dei percorsi sinuosi, simili ad anguille in arrampicata. Sedettero insieme ad ammirare il panorama e Carletto disse : “ Ho visto mille volte questi luoghi ed altrettante volte rimango senza fiato”. E Alcibiade “ Per noi che conosciamo ed amiamo queste paludi, ogni giorno è assolutamente nuovo ed ogni istante vi è un altro insegnamento da apprendere. Se penso a cinquant’anni fa, quand’ero bambino, mi ritornano in mente tutte le emozioni che ho provato. Quanto tempo è passato da allora e come sono invecchiato. Piuttosto, ora anche la Brumilde è in pensione. Lo sai che portandola a spasso nel podere l’altro ieri ho trovato un “passaggio” di colombacci in un boschetto di querce?”. Alcibiade sembrava rinato, con l’aria spirilla e gioviale di un giovanotto. Aveva acceso il suo puzzolentissimo mezzo Toscano facendo indietreggiare Duck che lo osservava torcendo il muso. Gli anni erano volati, ma non invano. Le lunghe camminate nelle marcite e le albe piene di nebbia erano la cornice di un grande quadro che Carletto aveva nel cuore. Tanti insegnamenti ed altrettante esperienze l’avevano aiutato a crescere. La sua bontà d’animo e la gratitudine che provava erano servite a farlo diventare il bastone della vecchiaia per quel povero ma felice vecchio, oramai non più solo . Quella sera famosa, la mamma, nella disperazione trovò la strada per il figlio e gli regalò uno splendido futuro. Il ragazzo aveva avuto un dono ed una guida e ascoltando il suo istinto aveva scoperto le gioie che portano le cose semplici e quotidiane, le tradizioni della gente comune. Carletto guardava Alcibiade sorridendo e pensava al giorno che lo conobbe, sotto le minacce della mamma che gli aveva promesso uno “spauracchio” ed alla prima giornata passata in acquitrino con il giovanissimo e forte Duck e con il non più giovane omino del ghiaccio, a ciò che aveva appreso ed a ciò che ancora doveva apprendere. Ma era sereno, mentre scrutava il cielo crepuscolare e pensava alla recente scoperta del “passaggio “ dei colombacci nel podere nuovo. Un giovane ed un ragazzo, l’esperienza e la saggezza, unite alla forza ed alla fiducia nel futuro, proprio all’inizio di una nuova stagione di caccia ed all’alba di un nuovo capitolo della vita.
Autore: Luca Davide Enna
Tre giorni. Tre giorni di seguito nuovamente appostato dietro quelle rocce, ma niente. Non spuntava fuori nemmeno per scherzo; era troppo furba, anche per lui. “Papà, che facciamo se esce fuori?” disse Ciccillo, e Peppeniello, di rimando “ ‘A ‘nguaiamme !”. Giusto, la voleva proprio mettere nei guai, quella dannatissima scostumata. Oramai era una specie di regolamento di conti personale. Ciccillo comprendeva l’accanimento del padre, perché anche lui aveva visto lo sfacelo causato da quella manigolda, ma iniziava a stancarsi di ritornare, tutti i giorni, dietro quelle rocce per tendere un agguato. Secondo Peppeniello, le tracce portavano proprio in quel posto, infatti, davanti all’ingresso della tana c’erano piume di pollo, a mucchietti, che incastravano la ladra. Bisogna ammettere che aveva prove schiaccianti, soprattutto, dopo la baraonda causata all’interno del pollaio. Le galline, terrorizzate, non scendevano dai trespoli nemmeno a mangiare e, per terra, una gran quantità di uova e gusci formavano una frittata abbastanza grande da sfamare una banda musicale. Stavolta l’aveva fatta grossa, era proprio il caso di dirlo. Filumena non era nuova a queste imprese, anche se solitamente si limitava a piccoli e mirati furti, tali da non destare eccessivi sospetti, o almeno da non alimentare ulteriormente le ire degli inconsapevoli ospiti. Giuseppe, o Peppeniello, per la famiglia, l’aveva chiamata Filumena, in quanto gli ricordava il titolo di una famosa commedia di De Filippo, poi, se era una Martora e non una Maturano, a lui importava poco. Filumena era una Martora speciale; come la povera donna della commedia aveva una prole a cui teneva e si arrabattava per tirare a campare, anche se, a differenza della signora, non voleva sposarsi con nessun Dumminicu. Filumena era astuta, ma volubile, altera, indisciplinata, insomma emotivamente instabile, come tutte le martore. Ciò che la rendeva antipatica agli occhi di Peppeniello, era la sua innata attitudine al furto con scasso o con destrezza. La piccola nottambula si aggirava presso le aie in cerca di qualcosa da sgraffignare e riusciva sempre nell’intento di recuperare un po' di roba commestibile. Le massaie non gradivano queste visite di “cortesia” e sobillavano i mariti, incitandoli alla vendetta. Simpaticissime persone, traboccanti di derrate alimentari, tanto da farle guastare, gettavano via quintali di frutta, farina, uova, che, a furia di stare stipate, marcivano, ma guai se qualche estraneo perpetrava un furto! In tal caso, si sentivano in diritto di vendicarsi, senza pietà. I campi nei dintorni pullulavano di selvatici ed i pollai erano talmente pieni che non si sapeva più come sistemare le galline o dove vendere le uova, tant’è che spesso gran parte delle provviste finiva a concimare gli orti o ad ingrassare i già fin troppo pingui maiali. Peppeniello, solitamente, era un uomo riflessivo, ma la nenia della moglie, ripetuta ogni sera e quelle lamentele con la vocina stridula e petulante che gli martellavano il cervello, gli facevano uscire il fumo dalle orecchie, perciò: o cacciava Rosalina, la moglie, oppure cacciava Filumena. Il figlio, Francesco, che lui chiamava affettuosamente “Ciccillo”, condivideva in pieno la filippica privata tra il padre e la Martora, tanto da farsi suggeritore, sostenitore e stratega, pur di aiutarlo a vincere quella tenzone. La mattina avevano preparato tutto con cura. Davanti all’uscita, alla base di un albero con il tronco cavo, avevano collocato una gallina uccisa da poco, poi si erano spostati di una decina di metri ed avevano atteso. Niente da fare. Aspettarono per ore, ma la martora non si palesò. La manigolda non si fece vedere nemmeno per idea, ma quella notte accadde un fatto straordinario. Peppeniello si agitava nel letto, in preda agli incubi. Sognò di stare a tavola, in un giorno di festa e di apprestarsi a tagliare un bel cappone arrosto. Quando stava per affondare la forchetta, una furia si abbatté sul tavolo; arrivò Filumena, acchiappò il cappone fumante e poi saltò dalla finestra. Era turbato per quella visione e la mattina si svegliò con due occhiaie nere come quelle di un pugile suonato. Non ne poteva più. Desiderava metter fine a quell’inutile rappresaglia, perché preferiva andare a tirare ai rigogoli, sotto i ciliegi, o ai colombacci, presso le querce, piuttosto che perder tempo dietro una roccia e davanti ad un prato. La giornata non era iniziata nel migliore dei modi; ad una certa ora, Rosalina era rientrata a casa e si era fiondata nell’orto. “Peppeniieeeeeeeee! Peppeniellooooo; vien’accààààà”, aveva strillato sgolandosi. Il marito era corso come poteva .”Che c’è? Ch’è suciess?” aveva risposto. “Chella scustumata ‘e Filumena s’è pigliata ‘e picciune e cummara Felicita” disse la moglie. Lui, sgranando gli occhi “ ‘O vero ‘e pccune? E comm’ha fatt?”, e lei “ Nunn’oo saccio. Cummara Felicita m’haa ritto e ‘i l’aggio ritt’ che l’avimme a fa passà nù uaio a chilla là”. “Papà, mammà. Ma come ve lo devo dire che se parlate in dialetto non vi si capisce? Fatelo almeno, per gli extra-borbonici”, disse Ciccillo. “E’ vero fgo mo.Questa volta abbiamo sbagliato e ci scusiamo”. E ripresero a dialogare nella lingua corrente. “Insomma, si può sapere cos’è capitato?” disse Ciccillo. “ Filumena è stata nel pollaio di comare Felicita ed ha preso alcuni piccioni” disse il padre, “e mammà, vuole che le facciamo passare un guaio, non a comare, ma a quella scostumata di una martora”. Il padre si sedette, sudava come un cammello, perciò la moglie si avvicinò e disse “ Si può sapere cos’hai, Peppeniè?” e lui: ” Stanotte ho fatto un sogno e mi sento sconvolto”. E raccontò tutto l’accaduto. La moglie prese carta e penna e si fiondò in casa della comare. Dopo una mezz’ora ritornò tutta felice e porse il foglio al marito dicendo: ”Noi siamo persone oneste ma…povere! Lo sai questo. Comare Felicita conosce la smorfia a memoria; le ho raccontato quello che hai sognato e mi ha dato questi appunti. Ma prima ascoltami che ti spiego tutto. Eravamo seduti davanti alla tavola apparecchiata vero?Bene. Ottantadue, ‘A tavula ‘mbandita (La tavola imbandita). Tu eri seduto a capotavola? Allora ,ecco cosa vuol dire: Sessantuno, O’ cacciatore (Il cacciatore) . Poi è arrivata la ladra; quindi: Settantanove,’O Mariuolo (Il ladro), ed a quel punto siamo rimasti senza parole; dunque : Settantadue ‘A maraviglia (Lo stupore) ed infine, la manigolda è scappata, Diciassette, ‘A martura (La martora)” Rimasero a bocca aperta come tre babbioni. Peppeniello infilò una giacca e corse a perdifiato in città a cercare un banco-lotto, poi, presa la cedola della giocata, si avviò verso casa con la testa che gli scoppiava. Arrivato a destinazione mangiò un brodino di verdura, si mise al letto con la febbre e rimase lì, tutto il giorno e tutta la notte, perseguitato dalle visite di Filumena che piombava sulla tavola e scappava con il pollo. La mattina seguente, dopo aver inzuppato il letto di sudore, si lavò ed uscì di casa per ritornare al banco e controllare la giocata. Ruota di N.: 82-61-79-72-17 …Cinquina! Chiese al gestore se era tutto corretto e quello, dopo aver letto attentamente, si mise a sedere e subito tolse una bottiglia e due bicchieri da sotto il bancone e li posò tremante. “Sono quindici anni che lavoro qui, ma non avevo mai visto una cinquina secca. E’ incredibile. Ma, vi rendete conto che cosa vuol dire?” Quello lo guardò, sollevò il bicchiere e tracannò d’un fiato il vinello che il gestore teneva nascosto per le emergenze:” Veramente, non saprei. Gioco raramente. Stavolta mia moglie ha tanto insistito, anche se per me era una follia gettare questi soldi, con la miseria che abbiamo”. L’uomo dietro il banco lo osservò sorridendo e disse:” Sono contento che sia capitato a voi, perché da oggi non saprete più che cos’è la miseria”. Peppeniello ringraziò, baciò le mani dell’impiegato, pianse e poi scappò via. Corse a perdifiato e arrivò a casa balbettando. Raccontò tutto alla moglie e quella svenne prima di aver sentito la fine. Come poteva, la aiutò a rialzarsi, poi si avviò da comare Felicita, acquistò un pollo, lo cucinò per bene, lo infiocchettò e si recò con il figlio verso le rocce di Filumena. Depose il cappone davanti alla tana ed andò via. Non ritornò più a cercare la Martora e non ebbe problemi economici. Poté tornare a trastullarsi con i rigogoli e i colombacci ed ogni volta che la comare andava a raccontargli di una visita della martora e della scomparsa di uno o due polli, lui la faceva andare nel pollaio a scegliersi quelli che voleva e si metteva a ridere, pensando al regalo di Filumena.
Autore: Luca Davide Enna
LA SMORFIA NAPOLETANA : 82, ‘A tavula ‘mbandita (La tavola imbandita); 79, 'O Mariuolo (Il ladro); 61, O’ cacciatore (Il cacciatore); 72 , ‘A maraviglia (Lo stupore); 17, ‘A martura (La martora)
fermati, venti anni prima, con il profumo dell’aratro che sale piano e le stagioni che si alternano in quell’eterno affannarsi e rincorrersi , con il fanciullo che scalcia dentro di noi , con il corpo che invecchia e con la mente che ci riporta i nostri ricordi.
Autore: Luca Davide Enna